Lo psicofarmaco è una sconfitta. Parola di medico veterinario.

Lo psicofarmaco è una sconfitta sul piano etico e professionale e non di meno su quello zoo-antropologico.

L’incremento dell’utilizzo di psicofarmaci sugli animali da compagnia è un fenomeno preoccupante e pericoloso. In casi di aggressività o isteria o problemi comportamentali in genere, pare la soluzione più in voga in tempi in cui l’umanizzazione dell’animale ha inesorabilmente umanizzato anche la medicina veterinaria. Forse sarebbe più corretto parlare di “ominizzazione”.

Vi è la mancanza di un riferimento che parta dal principio del rispetto della maggiore sanità animale, un assioma inequivocabile: gli animali sono decisamente più sani della specie umana, perché direbbe Rousseau, “meno contaminati dalla civiltà”.

Partendo da questa tesi sarebbe più etico e ragionevole allora ragionare di come riconsiderare le terapie per gli animali. Si dovrebbe fare in modo che le terapie abbiano un maggior grado di rispetto e soprattutto una minore contaminazione possibile.

Là dove la rusticità dell’animale è reale vi è una corrispondeza a una innata capacità di autoguarigione; Nelle razze che storicamente hanno avuto meno contatti con l’uomo o una selezione più rigida e austera l’hanno preservata, gli effetti collaterali avversi da farmaco sono particolarmente evidenti. Questo dimostra il bisogno innato di preservare la propria unità e identità connaturata, rispetto a tutti i principi di sostanze estranee, dette “Xenobiotici “ in senso lato. Ciò che è preservato nella sua origine è sano, o come direbbe Sesto Empirico, “la perfezione sta nel cominciamento”.

Infatti, bisogna considerare innanzitutto che in ogni essere vivente il principio di identità non solo razziale e culturale, è anche principio di individualità e unicità: in campo biologico uno di questi aspetti è verificabile nella patologia autoimmune del  “rigetto”, dove il sistema immunitario non riconescendo e difendendo la propria unicità rifiuta e così facendo conferma quella che viene per ciò definita anche “identità immunitaria”, coincidente sul piano dell’individuo in una propria e vera personalità indivisibile. L’indice di risposta terapeutica è quindi correlabile alla concezione innata di limite ed individuo e fa parte di quella unicità che caratterizza in maniera peculiare ogni essere vivente che giustamente va inteso e conosciuto nella propria singolarità. Da queste analisi è possibile la risposta individuale al farmaco: è già contemplata dalla farmacologia, in senso lato indica come esista la necessità di dover individuarlizzare o personalizzare la terapia in base ad una serie di fattori che rendano meno “protocollabile” la terapia stessa, piuttosto renderla più adeguata alle necessità del paziente.

Lo psicofarmaco è rivolto alla specificità delle terapie mirate ad uno specifico, cioè quelle che si preoccupano di una alterazione dello stato percettivo e cognitivo. La neuropsichiatria classica individua in due categorie farmacologiche gli effetti da ripristinare sull’azione dei neurotrasmettitori e cioè dopamina e serotonina, come le due porte di entrata e uscita del flusso degli elementi psichici che caratterizzano l’emergere della sfera psichica. Forse più di ogni altro ambito in questo, il riduzionismo meccanicistico esprime in questa sua modulazione il limite estremo alla complessità di un sistema tra psiche e cervello, tra mente e emozioni: tutto questo vive in un contrasto, in una contraddizione:  non può essere il frutto di una visione così semplicistica di un apparato d’espressione per la mente di un cane o di un gatto, fatta di una incommensurabile perfezione.

Gettare una sostanza tra i cui effetti vi siano anche quelli descritti è come provocare una scintilla in una polveriera: è giusto menzionare che sopratutto gli psicofarmaci rispondano alla legge di Arndt-Schulz , ovvero di “inversione d’effetto”, cioè che possano euforizzare un depresso ed il contrario, e allo stesso tempo, se  somministrati in un soggetto sano, gli euforizzanti inducono depressione. Oltre al possibile errore terapeutico esisteJack Russell Terrier Snarling anche un errore diagnostico che rende vano e complesso l’uso e l’abuso dello psicofarmaco, per non parlare degli innumerevoli effetti collaterali spesso taciuti. Considerando inoltre che la depressione nella sua accezione umana sia l’effetto di una condizione esistenziale descritta come l’incapacità di vivere le emozioni, o atarassia e quindi il frutto culturale di un male freudiano, non si può equiparare lo psicofarmaco alla stato di rassegnazione indotto dal condizionamento operato dall’uomo sul suo inferiore animale. Ad esempio, il confondere una reazione alla coercizione e prigonìa : la violenza riportata ampliamente dalla stampa quando un leone (“impazzito”) aggredisce il suo domatore. Quindi il Trattamento Sanitario Obbligatorio per gli animali è una prigionia delle emozioni che allo stato istintivo vengono soffocate da una semplice “post-posizione d’effetto”: si rimandala la soluzione del problema attraverso una temporanea sospensione, con l’uso del farmaco: procedura oggi molto usata nei casi di cani aggressivi, o emotivamente sballati. E così è molto frequente che al termine della terapia il problema risulti invariato o addirittura aggravato, poiché la guarigione vera, attraverso l’esperienza, in questo caso anche emozionale, è un processo che modifica in toto anche l’aspetto psichico del soggetto e affinché ciò avvenga, necessita di una evoluzione in senso propositivo del percorso individuale e delle dinamiche che hanno impedito il raggiungimento di un nuovo equilibrio, compreso lo stato psichico. Addestratori e rieducatori sempre più oggi sono impegnati a recuperare cani lungamente trattati con i serotonino mimetici, farmaci il cui nome commerciale è tanto conosciuto da essere entrato nel linguaggio comune per indicare uno stato di alterazione.

Anche l’utilizzo di ormoni è al pari di farmaci psichici: la sfera psichica è altamente influenzata dall’effetto degli ormoni , tanto che l’energia libidica è in chiave fruediana rapportata al pari all’energia dell’individuo e alla sua condizione sessual-repressiva come nell’isterismo. Se la gatta che non si accoppia diventa istericapsicofarmaci le si somministrano ormoni… Quindi anche la castrazione chimica, anche questa suggerita sempre più frequentemente come alternativa alla castrazione chirurgica, mentendo o almeno ignorando gli effetti collaterali, è deleteria e inefficace. Alan Turing, il padre dell’informatica per l’invenzione della macchina di Turing, conosciuto ai più per l’uscita del film “Enigma” (2012), ne fu un esempio lampante: fu arrestato e condannato per omosessualità e costretto a scegliere tra una pena detentiva o la castrazione chimica. Scelse la seconda e per un anno si sottopose alle “terapie” per l’alterazione della libido che furono causa di una depressione che lo portò al suicidio. Rimandare farmacologicamente il problema permette di considerare tra l’altro che gli sforzi prodotti dall’individuo potrebbero coincidere con una guarigione naturale, che vengono confusi con le promesse dello psicofarmaco: non avendo questo una linearità di effetto, dovrebbe almeno far riflettere agli utilizzatori.

Lo psicofarmaco è una sconfitta sul piano etico e professionale e non di meno su quello zoo-antropologico. A chi vanamente parla di co-evoluzione è doveroso ricordare che per una specie come quella umana la tendenza all’uso imponderato del libero arbitrio possa non coincidere con quello più sobrio ma maggiormente attaccato alla vita di quello animale: per questo esistono due velocità diverse che vanno rispettate;  gli animali hanno “meno vita ma più vitalità” e deprimerne l’espressione originale equivale a una epidemia da farmaco su cui ovviamente il mercato farmacologico sguazza.

Se le possibilità terapeutiche partissero da una etica che osservi l’animale nel suo gesto naturale e si fondassero nella capacità interpretativa di intuire con quale modalità interferire o intervenire, potrebbero essere per questo più rispettose e coerentemente avvicinarsi a quel tipo di energie sottili maggiormente coincidenti con il volere della materia: parliamo di “ informazione “ e non di molecole, parliamo di emozioni in sintonia e non discordanti con una armonia comune che indica la vita , nei suoi precedenti minerali vegetali animali, sulla quale occorre seriamente indagare e sulla quale scriverò più avanti.

 

 

10 COMMENTS

  1. Uso ed abuso sono due facce di una stessa medaglia.
    Sacrosanto.

    Ove vi sia un uso, intenzionalmente benefico e corretto, vi può essere sempre un abuso da cui difendersi.
    Il principio è tanto vero quanto fondamentale se rapportato ai farmaci, il cui abuso è fonte di gravi problemi ed accesi dibattitti nel mondo (riprendo la citazione del collega riguardo l’elevato tasso di mortalità per causa dell’incorretto utilizzo dei farmaci).
    Qualunque sia l’ambito, proteggerci dall’abuso è sempre prioritario per andare avanti in maniera corretta.

    Anche l’abuso di filosofia è pericoloso.

    Quanto utilizzata con competenza e cautela, la filosofia è il “primo motore immobile” della vita e del progresso di una civiltà, è la bussola dell’etica e della politica, è la linfa vitale dell’evoluzione.
    Quanto se ne abusa, la filosofia s’incancrenisce, si piega su se stessa, si auto-interpreta e si rimodella, distorcendo la realtà e diventando altare da cui chi la professa annichilisce ogni possibilità di dibattito, perché diventa verità assoluta, non tiene più conto del contesto, viene concepita come unico verbo che gli umili mortali non possono comprendere, ma devono solo ascoltare e sommessamente (e)seguire.

    La questione filosofica della naturalità, la genuinità, l’incontaminazione e l’autodeterminazione degli animali è alla base del progresso culturale della nostra civiltà, che lentamente si sposta verso posizioni sempre più attestanti la dignità animale. Non potrebbe esserci niente di più fertile e beneficamente produttivo di tale dibattito filosofico.
    Spingersi verso l’abuso di tale filosofia ci porta però a contorte riflessioni su ciò che è bene e ciò che è male per i nostri animali, o su ciò che è naturale o meno. Tale riflessione risulta estremamente difficoltosa, in un contesto in cui noi esseri umani stessi ci siamo pericolosamente allontanati dalla nostra intima natura.

    Ed ecco che l’ippocratico intento curativo, che ai giorni d’oggi comunemente si conclude con la somministrazione di un farmaco, diventa violazione del principio di autodeterimazione dell’animale, profanazione della sua identità psico-neuro-endocrino-immunologica, attentato alla sua natura.
    Di seguito, un veloce e schematico esempio di ciò che potremmo definire violazione dell’autodeterminazione delle specie, se abusassimo della filosofia:

    -adottare/comprare un cane/gatto se si vive in un contesto urbano/occidentale/industrializzato
    – Il guinzaglio
    – il collare
    – la lettiera del gatto
    – Il cibo industriale (croccantini)
    – gli antiparassitari esterni
    – la sella, le briglie, i ferri sotto gli zoccoli violano l’autodeterminazione del cavallo
    – il miele (viola l’autodeteminazione delle api)
    – la seta (viola l’autodeterminazione del baco)
    – lo yogurt (viola l’autodeterminazione dei fermenti lattici)
    – l’agricoltura (viola l’autodeterminazione di semi, piante, frutti, radici ed annessi)

    Naturalmente si potrebbe continuare ancora per molte, molte righe, ma l’intenzione qui è ben diversa.
    Sono un Medico Veterinario Comportamentalista, pratico su di me l’omeopatia da quando sono nato ed ho iniziato ad applicarla sui miei pazienti da qualche anno, assieme alla floriterapia e l’omotossicologia. Condivido con il collega Satanassi gli stessi punti di vista sull’uso ed abuso dei farmaci, e sulla visione olistica della salute e della vita, ma il mio paradigma è “in media stat virtus”, ed ho giurato su un codice deontologico in base al quale il rispetto dei colleghi è fondamentale.
    Ecco perchè ritengo che, con quell’articolo, il collega abbia scelto di dire la migliore delle cose, nel peggiore dei modi.

    Quando si muove una critica, bisogna conoscere la materia di cui si tratta oppure bisogna parlarne in maniera competente, perché dall’altra parte c’è l’opinione pubblica, che non sempre ha i mezzi critici per comprenderne il vero senso.
    Se si vuole dibattere sugli psicofarmaci, oltre alla filosofia, bisogna conoscere la psicoterapia comportamentale veterinaria, secondo la quale il farmaco non è un fine per controllare la mente dell’animale, sopprimendo ogni sua flessione positiva o negativa indifferentemente, bensì un mezzo attraverso cui eliminare quegli squilibri emotivi che ingabbiano l’animale in un loop di automatismi istintivi ed incapacità di apprendimento e ragionamento.
    Lo psicofarmaco è una chiave che ci apre una porta attraverso cui fare passare la riabilitazione (il vero cuore della terapia comportamentale), è un impalcatura che serve a restaurare l’edificio. Poi la chiave si toglie, la porta si chiude, l’impalcatura si smonta e si vede se la nuova struttura tiene.

    Il veterinario che usa lo psicofarmaco come fine, per sedare o drogare un animale problematico, è un lestofante, non un comportamentalista.

    Il veterinario che confonde la pigrizia o reazione alla coercizione con la depressione (in senso emotivo, biochimico, biologico) ed utilizza uno psicofarmaco in base a questa diagnosi è un idiota, non un comportamentalista.

    Questi elementi il cliente non è in grado di carpirli attraverso un semplice articolo, e noi che ci troviamo ogni giorno a dover lottare contro i pregiudizi della gente non possiamo che uscirne danneggiati.

    Intavolare un costruttivo dibattito sul confine fra uso ed abuso dello psicofarmaco o sull’effettiva utilità di questo rimedio rispetto ad altri è possibile, ma non in questi termini e questi toni.
    Un veterinario è anche un tutore della salute e dell’incolumità pubblica, ed esistono situazioni in cui l’utilizzo dello psicofarmaco diventa questione di sicurezza.
    Una proprietaria gravemente cardiopatica che chiede il nostro aiuto per i comportamenti incontrollatamente aggressivi dei suoi due cani, una famiglia che vive in un appartamento con la nonna anziana con l’osteoporosi ed un pastore tedesco con grave deficit degli autocontrolli (un cane eccessivamente giocherellone, parafrasando alla Satanassi) non avranno primariamente bisogno di delucidazioni sull’autodeterminazione del proprio animale, avranno necessità di essere messi in sicurezza, e poi di risolvere il problema con qualunque mezzo professionalmente disponibile.
    Quando non sono in gioco la salute, la sicurezza e l’incolumità pubblica ed animale, ovvero nella stragrande maggioranza dei casi, allora si apre una galassia in cui dibattere su cosa sia opportuno utilizzare, sulla pericolosità degli effetti collaterali dei farmaci, e sul fallimento dell’intento medico ricorrendo ad essi, ed in questo caso mi trovo pienamente d’accordo con chi sostiene che sia più importante strutturare le potenzialità cognitive, stimolare l’organismo a reagire ed informare correttamente il proprietario, senza dover ricorrere allo psicofarmaco in prima battuta.

    Se per Satanassi “lo psicofarmaco è una sconfitta sul piano etico e professionale”, per me il suo articolo è una sconfitta sul piano della deontologia e della progressione culturale.

    Dubium sapientiae initium.

    Dott. Paolo Margaira

    • Noto nelle osservazioni del collega una sommessa provocazione come ricerca d’aiuto, curare, rieducare, riaddestrare, riabilitare… Il primo sforzo senza essere “comportamentista”, (chiamiamoli etologi con questi neologismi dalla pronuncia scomoda e agrammaticale), è quello di chiedersi: “e se io fossi lui”? in questa sorta di mimesi che nelle forme più estreme diviene quasi una trasfigurazione in una sorta di mimetismo tra il batesiano e il mulleriano, se io fossi quel cane o quel gatto inferocito, “Instint “?
      Allora in un sol colpo azzero e destrutturo ogni pregiudizio e preconcetto e simulazione o emulazione che riconduca al sol modo di osservare e di emozionare, quello umano…
      “Se fossi lui “: ho cercato formule che tendessero a semplificare piuttosto che a complicare ciò che lo è già per natura dell’uomo estremamente complesso e mi riferisco alla psiche e a tutte le sovrastrutture…
      Concedersi alla natura con i suoi 4 milioni di anni evolutivi o meglio di abitudini e cambiamenti allora non posso che esser certo che in essa si trovino le chiavi di una risoluzione pacifica tendente a abbattere la complessità in formule sobrie e meno dispendiose come insegna, ma tutto ciò può avvenire attraverso la rinuncia ad un metodo positivista: per questo è necessaria una filosofia ed un’etica, cosa che non è stata insegnata come materia accademica obbligatoria, visto tra l’altro che la medicina veterinaria provenendo dalla zootecnia basata sull’utilitarismo, non contemplava ciò che sarebbe nata come disamina etico-filosofica per non dire morale col nascere della pet-veterinary.
      In questa lacuna della quale si avverte la mancanza a mio avviso, per mia sofferta ricerca, della Medicina Biologica: quella che esprime da un punto di vista escatologico la maggior coerenza nella interpretazione dei fenomeni della malattia di qualunque natura essa sia.
      così come ” il bambino è il padre dell’uomo”, così come l’animale ne è il nonno, attraverso il bambino, il nostro sforzo sta proprio nell’interpretare con gli occhi che abbiamo perso in una somma di piccoli ocelli che ci danno una visione “a mosaico” anziché “impressionistica”, la visione di insieme è come l’espressione di singoli pezzi che vogliamo destrutturare dalla somma delle parti;
      La scomposizione è ciò che tende per il cosiddetto “effetto a imbuto” a finire nel protocollo che non si addice alla cura individualizzata verso la quale tra l altro si stanno dirigendo tutti gli indicatori di consumo cioè alla personalizzazione delle diete, dell’ Rc, delle polizze, delle tariffe telefoniche, personal trailer… tutto volge all’olismo, figuriamoci se ciò non debba avvenire sul piano terapeutico, ma la stagnazione indotta da una cattiva gestione dei profitti ha portato ad un aumento delle diagnosi dal dopoguerra ad oggi del 70% a cui corrisponde solamente un 30% delle possibilità terapeutiche, per cui si fa diagnosi a cui non corrisponde terapia o la terapia è palliativa o addirittura compassionevole, si inventano termini piuttosto che velocizzare sperimentazioni ma soprattutto controvertire le tendenze e a livello scientifico ragionare in maniera completamente opposta cioè copernicana.
      La tossicodipendenza non è stata guarita col metadone ovviamente, le comunità di recupero saranno la forma più evoluta delle carceri, si usano manganelli e anni di carcere per chi manifesta contro scempi NO-A-TAV-AR, abbiamo pena di morte e isolamento, con l ‘uomo e contro l’uomo non abbiamo ancora definito nulla, la via della cura è complessa come la guarigione stessa, il problema del linguaggio lo è ancor di più, ma allora più che mai è importante una etica e duna filosofia che sia davvero dalla parte degli animali pur contemplando le difficoltà ma che assolva almeno dal rischio di confondere una onestà professionale da quella che è il dovere nel confronto del paziente muto e di star dalla sua parte, e se decidessimo per la contingenza di non esserlo, almeno vi sia una onestà di fondo e lo sforzo nel cercare attraverso la filosofia biologica delle soluzioni più coerenti e meno invasive.

      Ricordo inoltre al collega che la deontologia parte proprio dal rispetto della esperienza altrui e della anzianità, che a parità di mezzi “la scienza sia figlia dell’esperienza” (Vinci ‘591), e fino a che la scienza medica sarà un connubio tra “sentire &sapere” la si potrà chiamare arte, e oltre alla tecnica imprescindibilmente sarà scienza anche umana, e che quindi oltre ai titoli, importante sarà e soprattutto nell’ambito della zooantropologia neonata discutibilmente opinabile, la capacità di interpretare: “la mente intuitiva è un dono sacro mentre quella razionale un servo fedele, noi abbiamo una società che ha glorificato il servo e dimenticato il dono”… ( Einstein 59)

      Concludo osservando che ciò che distingue la saccenteria dalla saggezza è il tempo, e che “chi da consigli soffre di nostalgia”, e io soffro, soffro di una nostalgia di quando ero “Re” dell’impero delle mie emozioni.

  2. Gentile collega,

    Ho letto con interesse il suo punto di vista, molto ben scritto e speegato. Mi chiedo solamnte se alla base non ci sia un cattivo uso di un farmaco (qualsiasi, ma in questo contesto quelli attivi su recettori predominantemente cerebrali). Come ben conosce sa che è altrettanto sbagliato l’uso di antibiotici nella terapia di una infezione virale non complicata o l’allontanamento di un micio dalla casa di una donna incinta. Non sarà che il vero problema non sia il farmaco ma l’uso improprio che alcuni ne fanno?
    La ringrazio della attenzione.

    • Parole molto sagge le sue, questo è uno dei problemi, forse il principale: l ‘uso è improprio poiché è protocollare, lontano dalla vera esigenza del paziente… si tratta di approfondire un concetto olistico e etico.

  3. salve sono un medico veterinario comportamentalista che utilizza psicofarmaci o terapie non convenzionali, affiancate ad un percorso riabilitativo di supporto, QUINDI TRA IL NON ETICO E L’ETICO. Mi domando il motivo di una tale ostinazione e guerra mediatica all’utilizzo di farmaci in un contesto non opportuno, a mio avviso. Così come non mi sognerei mai di accusare di non etico l’utilizzo di una terapia omeopatica li dove non ha funzionato per l’incapacità del medico di leggere il suo paziente, non capisco quale superficiale critica debba essere usata nei confronti di una terapia allopatica fondata su indagine scientifica. mi sembra inutile far guerre di fazione, filosoficamente ed eticamente scorretto, piuttosto che collaborare in un percorso evolutivo su base medica.

  4. Salve dott.Satanassi. Ho apprezzato l’articolo, ma volevo chiederLe: è SEMPRE una sconfitta? O contempla l’esistenza di casi in cui possa essere davvero necessario?

    Grazie.

    • La sconfitta è una delle possibilità dei tentativi, per questo non ho detto “condanna”; in realtà sappaimo ben poco degli psicofarmaci e dei loro effetti generali, e se vogliamo parlare di scientifico allora è facile osservare come il 50 % degli effetti collaterali dei farmaci chimici non si manifestano durante il trial sperimentale.

      • Dott. Satanassi, rispondo a lei in quanto è il suo articolo a dare l’avvio alla discussione riguardo un argomento così importante. Io non sono un suo collega e non ho conoscenze specifiche in materia, ma posso solo portarle la mia piccola esperienza. Anni fa avevo un cane che, invecchiando e perdendo la vista incominciò, nelle ore serali in cui io ero al lavoro, ad abbaiare e a disperarsi, cosa che mai era accaduta prima e, al mio rientro impiegavo parecchio tempo per calmarlo. Il veterinario da cui andavo allora mi diede uno psicofarmaco da somministrargli, in pratica per sedarlo. Non mettendo in dubbio l’autorevolezza, così feci. Ma dopo pochi giorni ebbi quasi la sensazione che peggiorasse, come se dovesse, oltre al disagio, combattere con qualcosa di “sconosciuto” . Fu allora che il mio buon senso prevalse. Buttai via tutto e decisi di prendere un cucciolo di gatto, anche se li aveva rincorsi tutta la vita. Perchè un gatto e non un cane? Ho cercato di seguire l’istinto e di “pensare da animale anziano”, un cucciolo di cane sarebbe stato troppo vivace e troppo richiedente. Visse un altro anno, in tranquillità e quel cucciolo di gatto divvenne l’amico più caro, una simbiosi di straordinaria efficacia e cura. Questo a sostegno di quanto lei crede, detto in termini forse fin troppo semplici, ma non banali. Credo che, in tanta conoscenza, di cui sicuramente anche i suoi colleghi si avvalgono per esercitare al meglio la propria professione, perdano il senso primo della Naturalezza con cui l’animale vorrebbe vivere e il contesto a cui spesso noi lo “strappiamo”.

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