La birra artigianale. Una bevanda “naturalmente viva”

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Sapete dove è nata la prima birra monastica (artigianale) in Italia?

Alle porte di Milano, in un angolo discreto di Pianura Padana,  si nasconde fra le nebbie e i campi dipinti dall’action painter William Congdon (che lì visse per molti anni), un monastero di quelli “Ora et Labora”, dove vive la comunità S.S. Pietro e Paolo: monaci benedettini di clausura. Uno di loro mi racconta:

Nel 2005 due di noi hanno trascorso un periodo di formazione in Belgio, presso alcune abazie che sono leader mondiali in questo particolare settore. Là hanno imparato le migliori tecniche di produzione da confratelli molto esperti – spiegano. Il nostro lavoro si inserisce nel solco di un’antica tradizione che fin dal Medioevo ha visto i monaci diventare importanti produttori di questa bevanda, soprattutto nel nord Europa. le tre ali della nebbia, W. Congdon

I 20 religiosi che compongono la comunità a Buccinasco hanno deciso di dedicarsi a questa attività dal 2008 quando si sono resi conto che l’agricoltura non era più sufficiente al loro sostentamento, nasce così il primo microbirrificio monastico italiano.  Oggi la concorrenza è alta e molte sono le produzioni nate successivamente, quindi pare decisamente importante il premio vinto nel 2014 Brussels Beer Challenge dove la Blond ha ottenuto la medaglia d’argento nella categoria Birre di Abazia, con più di 300 partecipanti. Ma facciamo un passo indietro.

La birra è una bevanda antica come l’uomo.

Sono state rinvenute testimonianze scritte già nella civiltà Sumera attorno al 3000 avanti Cristo. Quando parliamo di birra in riferimento alle popolazioni dell’antichità non dobbiamo però pensare alla bevanda così come oggi la conosciamo. Essa era piuttosto qualcosa di simile ad un decotto denso costituito da cereali impastati con acqua e poi lasciati fermentare all’aria in modo più o meno naturale.

Plinio il Vecchio (+ 79 d.C.) nel suo famoso trattato Naturalis Historia ne scrive dicendo che in Egitto veniva chiamata Zythum, in Spagna Celia o Cerea, in Gallia Cervesia. La sua schiuma veniva usata dalle donne per curare il viso (cfr. XXII, 164), mentre i Galli la usavano come lievito per fermentare il pane che, per questa ragione risultava più leggero (cfr. XVIII, 68). Esistono poi testi medievali che ne parlano all’interno di trattati medico-dietetici, tra i quali ricordiamo le opere della Scuola Medico Salernitana o di santa Hildegarda di Bingen. Per le sue proprietà nutritive la birra era chiamata anche : “pane liquido”.

Secondo alcuni studiosi sembra che la birra amaricata e aromatizzata col luppolo (Humulus Lupulus, è un rampicante perenne della famiglia delle Cannabinaceae, di cui si usano le inflorescenze femminili) come la conosciamo oggi, sia un’ innovazione di origine monastica. Il suo utilizzo per la produzione della birra compare per la prima volta in alcuni manoscritti benedettini del IX secolo.

La birra è davvero un prodotto assolutamente naturale. Una bevanda ottenuta dalla fermentazione alcolica con lieviti (funghi unicellulari) di un mosto preparato principalmente con malto d’orzo. Poche e semplici le materie: acqua (circa il 90 %), malto d’orzo (o in aggiunta altri cereali tipo frumento, mais, riso), luppolo e lievito. Oggi però, grazie anche al lavoro creativo dei micro-birrifici artigianali, si sta affermando il fenomeno delle birre aromatizzate con spezie o frutta, recuperando e ripensando in chiave italiana quella che è la grande tradizione birraria Belga. monaci birra2Le birre “artigianali” normalmente utilizzano un processo di “rifermentazione in bottiglia” (o fusto), cioè aggiungono zucchero e lievito in fase di condizionamento in modo tale da innescare una fermentazione ulteriore (dopo quella primaria che trasforma, grazie al lavoro dei lieviti, il mosto zuccherino in alcol e CO2) che conferisce originalità e “vitalità” al prodotto conferendogli un gusto che si affina ed evolve nel tempo anche per parecchi mesi. La grandezza di una birra, non di rado, è dovuta proprio al tipo di ceppo di lievito che si usa, perché il suo metabolismo sprigiona prodotti cosiddetti “secondari” della fermentazione che rilasciano esteri (cioè note floreali) o alcoli superiori (cioè note fruttate: banana, pesca, frutti tropicali), i quali sono importantissimi nel delineare il profilo aromatico della birra.

Oggi si usano prevalentemente due grandi famiglie di lieviti. Il ceppo Saccharomyces Cerevisiae, che è la forma più diffusa e che predilige alte temperature per la fermentazione, ovvero di almeno a 16-18 °C. Tutte le birre, fino a circa 200 anni fa, si producevano con questo lievito. Il ceppo Saccharomyces Carlsbergensis che predilige temperature di fermentazione comprese tra 5 e 10 °C. Questo significa però che sono necessari impianti di raffreddamento durante tutto l’anno con evidenti aumenti di spesa sulla produzione. Bisogna dire però che le basse temperature proteggono meglio la birra dallo sviluppo di microorganismi indesiderati. Terminata la fermentazione primaria il levito può essere recuperato dai serbatoi di fermentazione e riutilizzato per “innescare” una nuova produzione di birra. monaci birra1

Per questo la birra è una bevanda naturalmente viva e se vi capitasse di incontrare questi monaci, che non hanno mail, non hanno un profilo facebook e lavorano e pregano tutto il giorno, vi accorgerete che anche le loro facce, pur incarnando più di 1500 anni di regola monastica, sono vivissime.

Verrebbe da chiedergli quale lievito usino per loro stessi.

 

 


 

Per conoscere tutte le caratteristiche della Birra Cascinazza che oggi produce la Blond, la Amber e la Bruin  e per studiarne gli abbinamenti a tavola potete andare nel sito del Birrificio dove troverete tutte le specifiche, le ricette e come e dove acqustarla. Prosit!

 

Immagini: William Congdon, Le tre ali della nebbia.  Monaci al lavoro nel laboratorio della Birra Cascinazza

Perché da grande farò l’apicoltore di Riccardo Stronati.

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Io sono Riccardo, ho 30 anni, sono laureato in ingegneria e da oramai quattro anni vivo in città e lavoro come programmatore. Ho sempre vissuto in contesti rurali, da piccolo trascorrevo gran parte del tempo con i miei nonni in campagna, da adolescente aiutavo mia madre e mio zio nel laboratorio dell’azienda familiare fino a poi, oramai più adulto, studiare all’università e lavorare come apicoltore.

La mia mia famiglia lavora con le api dal 1884, produce il miele Peloni ora mia madre e mio zio, ieri mio nonno l’altro ieri il mio bisnonno e così via. Abbiamo sempre prodotto miele in maniera naturale vedendo le api come una risorsa ma anche come un’esperienza di comunione familiare. Le albe alla mattina per sfruttare il fresco, il caldo del laboratorio, le serate trascorse a pulire sono tutti momenti faticosi ma vissuti a fianco di un familiare con una dignità enorme nei confronti della risorsa, del lavoro e del cliente. Fortunatamente l’apicoltura non è la nostra primaria attività, ognuno di casa ha un proprio lavoro e il miele è ciò che ci fà ritrovare insieme. Questo ci dà una marcia in più e ci svincola dal dover investire per crescere e produrre per sopravvivere. Il nostro rapporto con l’animale e il prodotto è semplicemente appagante.

Così le prime visite dell’anno in tardo inverno sono piene di incognite e paure, lo sviluppo delle famiglie in primavera è rassicurante, la potenza dell’alveare in piena fioritura è impressionante, lo scoraggiamento degli infestanti fino a poi la tenacia e la difesa per l’invernamento. Queste elencate sono un estratto di tutte le sensazioni che l’apicoltore percepisce durante la stagione nel rapporto con l’animale. In tutto questo la natura scende in campo in maniera trasversale in molti aspetti, dal meteo, il più importante, dalla biodiversità rurale, dai processi di trasformazione del nettare e molti altri.

L’apicoltore spesso è soggetto a tutto questo ma spesso è anche parte attiva. È responsabile del benessere delle proprie api, contribuisce all’ecosistema in maniera sia positiva che negativa, influenza i risultati di altri apicoltori e contadini e, almeno per il nostro caso, gode delle sfaccettature che il mondo delle api ti regala.

Un caldo pomeriggio di sole primaverile in mezzo alla campagna marchigiana verde di grano in crescita e macchiata di germogli di girasole con il ronzio di un alveare scoperchiato, non è una scena bucolica descritta nei libri. Il caldo estivo, le cicale e il sudore del lavoro per la raccolta è una misura non soltanto del lavoro in sè ma anche del valore della fatica delle api e un’indice del rispetto che occorre avere in questo lavoro. SONY DSC

Diversamente dal rapporto tra uomo e animale domestico la relazione con le api è molto più primordiale e transcodifica anche il rapporto uomo-natura. Le api hanno bisogni come qualsiasi animale e pianta e comunica in maniera molto più criptica di un animale con sinapsi estese. Sta all’apicoltore avere la sensibilità di recepire la natura intorno attraverso il linguaggio con cui le api ne codifica il messaggio. L’ape chiede aiuto per gli insetti che muoiono per le semenze e i pesticidi invasivi, è un indicatore della biodiversità rurale, un misuratore dell’inquinamento e molte altre cose. Da questo si evince la funzione economica e sociale dell’apicoltore in un mondo in cui l’agricoltura non è più il settore primario che ha permesso lo sviluppo degli altri due ma bensì un settore ridimensionato, destinato a pochi lavoratori e che deve soddisfare i bisogni di tutti, fortemente dipendente dai prodotti infestanti sviluppati dal settore terziario e prodotti dal secondario. Ci si riconduce, anche in questo ambito, ai palesi paradossi del mondo moderno e dei suoi rapporti di forza contorti.

Sono quattro anni che seguo molto meno l’attività dell’azienda apistica e l’alternarsi delle stagioni ha un sapore molto più insipido. La fatica nel lavorare dietro ad una scrivania, per far comperare delle belle scarpe pitonate a qualcuno, non ha lo stesso valore dell’accudire milioni di api. Il miele, millefiori, monoflora e, in particolare il girasole tipico della mia zona, è un prodotto ricco sia dal punto di vista nutrizionale che economico, è locale, non è alterabile è variegato ed è buono. Io vorrei invitarvi tutti a trascorrere un giornata con le api, a stupirvi della loro organizzazione e operosità a raccogliere i frutti del loro lavoro e vedere quanto quello dell’apicoltore sia semplice ma fondamentale. Vorrei sensibilizzarvi alla nostra attività perché avere un animale domestico non è stare in armonia con il mondo animale e con la natura, lavorare con le api è lavorare con la natura per la natura. L’apicoltore è parte integrante del ciclo dell’alveare perché si preoccupa del benessere dei propri animali rispettandone profondamente il loro corso, è profondamente dipendente dalla natura e dai suoi eventi e quindi non può fare altro che rispettare questo suo datore di lavoro così delicato, armonioso ed estremamente equilibrato. Mi piacerebbe che il rapporto che la famiglia Peloni ha con le api sia lo stesso per altri apicoltori, professionisti e non, e che anche altre persone da grandi possan fare gli apicoltori.

RICCARDO STRONATI.

Fotografia: “Riverde” di Riccardo Stronati

Il gatto di Montaigne (parte I)

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Gli occhi dei gatti racchiudono qualcosa di enigmatico e al tempo stesso di emblematico, per noi. Chissà se i nostri avranno, per loro, le stesse misteriose, o forse solo ambigue, qualità. Sia come sia, così – emblematica, enigmatica – dovette apparire a Michel de Montaigne la gatta di cui, nell’Apologia di Raymond Sebond, scriveva: «quando gioco con lei, come faccio a sapere che non sia lei che gioca con me?».

La domanda, racchiusa in quello che Jacques Derrida definiva uno dei più lucidi e importanti «testi precartesiani e anticartesiani sull’animale», in qualche modo compendia la convinzione che, al fondo della vita dell’altro, gatto o uomo in questo caso poco importa, permanga sempre qualcosa di insondabile, un multiplo legame con una zona liminare dell’altro da sé, non scalfita né dalla luce della completa differenza, né dall’ombra della seppur parziale identità da cui è comunque lambita. I passatempo della servitù, la pazienza muta delle cose, gli occhi del gatto sono, in Montaigne – forse il più «dialogico» di tutti gli scrittori – incontri occasionali che aprono all’incontro e al confronto, qualcosa verso cui possiamo approssimarci, come possiamo approssimarci a noi stessi e alle nostre dissonanze senza mai assimilarle o accordarle troppo a un ego pronto ad andare in mille pezzi alla prima occasione.

Oltre a Saul Frampton, che incardina il suo Il gatto di Montaigne (Guanda, Milano 2012) partendo proprio dal più compiuto degli Essais, anche Richard Sennett nel suo Insieme (Feltrinelli, Milano 2012) menziona l’episodio della gatta (o del gatto) situandolo «nel cuore stesso» del proprio progetto. Se Bruno Latour, a più riprese richiamato da Sennett, aveva le sue buone ragioni nel sostenere che, nel nostro rapporto con scienza, alterità, tecniche non siamo mai stati moderni, richiamandosi a Montaigne, «primo dei moderni», Sennett precisa: non lo siamo ancora diventati, moderni.

Nella conclusione del suo Together, volume che segue The Craftsman nella trilogia dedicata al “Progetto Homo Faber”, il sociologo statunitense, già autore di libri chiave sulle derive del lavoro nel cosiddetto nuovo capitalismo, porta proprio la gatta descritta da Michel Eyquem duca di Montaigne a esempio di quella cooperazione impegnativa che per lui costituisce traccia e filo, tra un passato e un futuro prossimi, sulla quale si strutturano le quasi trecento pagine del suo ultimo libro. Libro il cui sottotitolo recita “The rituals, pleasures and politics of cooperation” e la cui traduzione italiana, di Adriana Bottini, sceglie la variante “collaborazione”, laddove un tedesco avrebbe avuto gioco migliore, nel rendere l’inglese cooperation con quel lavoro comune che si condensa del termine Zusammenarbeit.

Due parole chiare sulle terapie omeopatiche per gli animali.

DI CHE SI TRATTA, COME AGISCE, A CHI SOMMINISTRARLA.   Anche gli animali possono essere curati con le medicine non convenzionali fra cui, omeopatia, floriterapia, omotossicologia, fitoterapia ed agopuntura, tra le principali. In Italia, i medici veterinari con formazione olistica, soprattutto omeopatica, diplomati in Scuole Specialistiche, sono una minima parte, seppur sia sempre maggiore il numero di persone che già usano su se stessi tale medicina, con il desiderio di utilizzarla anche per i loro beniamini. La più conosciuta di queste è l’Omeopatia, nata oltre due secoli fa in Germania, grazie al Dott. Hahnemann, secondo il quale ogni soggetto vivente fa parte di una realtà in cui si deve considerare e si deve osservare come ogni influenza familiare e ambientale possa agire sul suo equilibrio di salute(la famosa “omeostasi”). Nell’indagine si stabilisce come poi questo equilibrio viene alterato fino a portarlo alla “malattia” a seconda del terreno costituzionale che ognuno di noi possiede dalla nascita. Questo modo di considerare il paziente è l’opposto di ciò che troviamo nella Medicina Tradizionale che cura a compartimenti stagni le alterazioni organiche e funzionali perché non tiene in minima considerazione la “soggettività” di ognuno, paragonando così gli esseri viventi a delle macchine tutte uguali. L’Omeopatia utilizza a questo scopo sostanze naturali ricavate dai regni animale-vegetale o minerale, preparate secondo rigorosa metodologia standardizzata, potendo così, se correttamente impiegata, aiutare a guarire o migliorare le condizioni di vita del soggetto, non delegando al farmaco, come avviene nella medicina ufficiale, bensì reagendo esso stesso per mezzo della sua energia vitale, a ristabilire l’omeostasi summenzionata. La Medicina Omeopatica la si può usare in condizioni di emergenza (punture di insetti che danno una iper-reazione, colpo di calore, avvelenamenti) con risultati a dir poco stupefacenti, smentendo così la falsa credenza che la sua efficacia sia “lenta”. pianteAltro utilizzo lo si può vedere nelle patologie croniche (come ad esempio: intolleranze, dermatiti, gastroenteriti) dove agisce più lentamente nel tempo, in quanto deve riequilibrare il soggetto da una condizione morbosa, instauratasi mesi o anni prima. Si rivela utile anche nei disturbi comportamentali, perché anche i nostri animali possono risentire dei nostri ritmi di vita e sociali troppo frenetici; negli anziani e nei pazienti oncologici dove garantisce condizioni di vita migliore, anche come supporto a terapie tradizionali. Per stabilire una cura, è importante una visita nel corso della quale andranno sondati, analizzati ed elaborati dal professionista, con la compliance del proprietario, tutti gli aspetti della vita dell’animale: le sue origini, il carattere, le sue abitudini, le paure, i gusti alimentari, i sentimenti, le malattie pregresse e quella in atto, senza tralasciare il contesto in cui vive.

Condivisione degli articoli, immagini e buone pratiche in Ent

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Storie di lupi e di uomini

Sabato 15 Gennaio a Sassa Marconi (BO) si è svolto un incontro pubblico sul lupo per testimoniare ancora una volta come sia e debba essere possibile una consapevole e pacifica convivenza tra gli animali selvatici e uomini. L’evento è stato organizzato dal Centro Tutela Fauna del Monte Adone nell’ambito del progetto “Lupo Monte Adone” e per presentare la nuova struttura Just Freedom completamente dedicata alla cura ed alla riabilitazione dei lupi feriti. La filosofia e l’obiettivo del progetto è il recupero e la reintroduzione, dopo le necessarie cure, dei lupi in libertà per consentir loro il recupero pieno della loro natura. Obiettivo sfidante e non privo di rischi quindi, ma che sta portando a risultati unici e forieri di grandi aspettative sotto moltissimi punti di vista. Durante il pomeriggio, in un teatro completamente esaurito, è stato mostrato il filmato dei due cuccioli Cecco e Spartaco recuperati in condizioni estremamente critiche dalle province di Arezzo e Rimini e che sono stati curati riabilitati e quindi liberati in natura pochi mesi fa. La qualità delle immagini realizzate con la dovuta e necessaria discrezione da Andrea Dalpian hanno messo davanti agli occhi degli spettatori tutte le emozioni vissute durante questa esperienza davvero unica nel suo genere. Le fasi del recupero, della riabilitazione, le prime interazioni sino ai comportamenti fraterni tra i due hanno permesso di vivere intimamente tutto questo. Occhi chiusi, poi a fatica aperti, sguardi, interazioni, gestualità colte in modo impeccabili hanno fatto molto più di qualunque parola che potesse essere detta. convegno_lupi_sasso_marconi Terminata la proiezione del filmato si è aperta una fase di racconto diretto del “dietro le quinte” di questi recuperi, dei dubbi e perplessità anche interne allo staff scientifico che ha condotto il progetto. La lunga sessione di domande e risposte poi ha messo in luce quanto siano utili e quanto mai opportuni questi momenti di diffusione culturale sul lupo. Centinaia di anni di cattiva informazione hanno radicato nella mente delle persone credenze ancestrali legate all’ignoranza dominante negli anni più bui del medioevo, credenze che solo grazie alla divulgazione in ogni sua forma possono essere rimosse. Retaggi culturali che si manifestano in abitudini tutt’ora in uso dal semplice augurio di “in bocca al lupo” sino all’agghiacciante apparentemente innocua favoletta di Cappuccetto Rosso. Il lupo non è buono o cattivo; entrambe le valutazioni sono foriere di un’umanizzazione che non gli appartiene, non gli deve appartenere. Il lupo va conosciuto per quello che è: un animale selvatico nel modo più puro ed incontaminato possibile, con le sue regole le sue strutture famigliari ed i suoi comportamenti sociali in grado di adattarsi alle più eterogenee condizioni ambientali che lo circondano, arricchendo il mondo in cui viviamo. E’ un dovere umano dargli la possibilità di poterlo fare conoscendolo e rispettandolo. Questo è il video proiettato su Cecco e Spartaco. Una ventina di minuti di puri fatti in cui volontariamente è stato dato spazio a didascalici eventi senza aggiunte di voci umane narranti.  

Il cane con lo zainetto. Favola di una storia vera.

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Mi ha svegliato con la zampa; poi, con il muso, ha indicato la porta. Indossava uno zainetto. “Come hai infilato quell’affare?” gli ho chiesto. “Sono fatti miei” ha risposto. In latino. “Tu parli? Tu parli in latino!” “Sono vent’anni che mi chiami Lucilio, Caio Lucilio eccetera eccetera. Come dovrei parlare? In inglese?” Logica stringente. Prima che potessi ribattere, il tipino si è avviato verso la porta d’ingresso. “Ecco. Voglio vedere come te la cavi, alla tua età” gli ho detto sogghignando. Lucilio mi ha fissato per un momento e poi ha attraversato la porta. Così. Semplicemente. Con zainetto e tutto. Io, ancora mezzo addormentato, ho tentato di imitarlo. E ho preso di brutto lo spigolo della porta. Il rumore ha svegliato Bera. Ho cercato di spiegarle quanto stava succedendo ma non devo esserle sembrato molto convincente. “Perdo tempo”, mi sono detto. “Devo beccarlo per le scale”. Ho aperto la porta d’ingresso; ma a quel punto Bera mi ha chiamato e, dalla finestra, ha segnato a dito il demonietto che, correndo come non gli riusciva da anni, aveva già raggiunto il culmine della salita. Manco a dirlo, ha attraversato il cancello chiuso e si è fermato accanto a un signore alto e bruno. I due si sono fatti un po’di feste. “Strano: non si sono mai conosciuti” ho pensato. Ma prima che mi riuscisse di spalancare i battenti della finestra, la coppia è scomparsa dopo il passaggio di un camioncino. “Bera, se è un sogno dammi in pizzicotto. Se è tutto vero, dammi un bacio. E che sia il più dolce che conosci.” E Bera – che forse aveva capito della faccenda molto più di quanto non mi avesse detto fino a quel momento – mi ha baciato. Non ha smesso ancora. Non smetterà più.