Perché un nuovo magazine?

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Un altro Magazine a riempire il web, in questo mondo di comunicazioni veloci, senza storia né tempo, senza persona, senza trama.  Sempre più fatto di impressioni e commenti buttati là, senza conseguenze né responsabilità. Sì, il mondo è in fiamme e con lui l’uomo e la sua libertà. Non quella di poter fare, si fa tutto ormai, non quella di poter dire, si dice anche troppo. Non senza scegliere, si opta anche con un clic. Ma senza quella capacità della propria umanità (mancante per definizione)  di aderire alla verità di sé.

Parlare del rapporto tra uomo e natura, raccontarlo, oltre al rischio di retorica, potrebbe essere un esperimento vizioso e inefficace in un contesto di animalismo, panteismo, ambientalismo, ecologismo, animismo, e tutti gli “ismi” che volete.

Ma partiamo per gradi, facendoci aiutare da Goethe.

Natura! Ne siamo circondati e avvolti – incapaci di uscirne, incapaci di penetrare più addentro in lei. Non richiesta, e senza preavviso, essa ci afferra nel vortice della sua danza e ci trascina seco, finché, stanchi, non ci sciogliamo dalle sue braccia. Crea forme eternamente nuove; ciò che esiste non è mai stato; ciò che fu non ritorna – tutto è nuovo, eppur sempre antico. Viviamo in mezzo a lei, e le siamo stranieri. Essa parla continuamente con noi, e non ci tradisce il suo segreto. Agiamo continuamente su di lei, e non abbiamo su di lei nessun potere. (…) La vita è la sua più bella scoperta, la morte, il suo stratagemma per ottenere molta vita… Alle sue leggi si ubbidisce anche quando ci si oppone; si collabora con lei anche quando si pretende di lavorarle contro… Non conosce passato né avvenire; la sua eternità è il presente… È un tutto; ma non è mai compiuta. Come fa oggi, potrà fare sempre.

(W. Goethe, Frammento sulla natura, 1792 o 1793)

L’uomo di oggi, velocemente colto, on line, contraddice Goethe: la natura non è più un mistero, è in suo possesso, sotto un microscopio, dietro le sbarre, analizzata, spiegata, braccata, utilizzata, violentata. Questa autodistruzione è ormai denunciata in ogni dove, si moltiplicano campagne di sensibilizzazione, iniziative, fino a schermaglie vere e proprie. E prolifera anche l’ideologia nichilista che accusando l’uomo delle sue effettive colpe e responsabilità, lo riduce a parte di un meccanismo ridicolo, privandolo di significato e di stima per ciò che sta facendo al pianeta. Così insorgono gli “ismi” di cui sopra e la battaglia, invece che antropologica diviene ideologica.

Da una parte i difensori del mondo e delle creature erette a nuovi idoli, dall’altra i creazionisti che ritengono il potere dell’uomo sul creato intoccabile e indiscutibile. Antropocentristi, specisti, antispecisti si sprecano di convinzioni. Così si infiamma anche ciò che originariamente sarebbe una relazione naturale, buona, indispensabile e simbiotica.  Più aumenta il cemento, più aumenta l’animale da compagnia. Più cresce l’arroganza, più si moltiplica il pet-business. Più si richiama all’etica, più si perde l’esperienza estetica, quella per intenderci di un Francesco in punto di morte, mezzo cieco, al freddo, mangiato dai topi che scrive “Laudato sii per tutte le Tue creature” e che in poco tempo viene trasformato in un’icona ecologista da sbandierare. I due fronti non sono privi di gesta violente, pur inneggiando al bene e al meglio per tutti: basta seguire la prima discussione feisbucchiana che si incontra su questi argomenti e si vedrà puntualmente che finisce a insulti. Poi ci sono eventi, come l’orsa Daniza o come allevamenti intensivi e violenti scoperti, o come fughe atomiche o città che si sgretolano per la pioggia che qualche domanda la pongono, ma è inevitabile che ogni dialettica in merito scada in schieramenti ideologici. Così si inventa anche la Bioetica, una scienza ormai necessaria più del pane.

Cos’è che ci fa ribellare? Questo schieramento da stadio, questo “o-o” o per dirla col Filosofo, questo “aut-aut”.  “Muoiono bambini ogni giorno e si parla di animali in estinzione”, “per nutrirsi si può distruggere e annientare qualsiasi cosa”, “gli animali sono meglio delle persone”, “lo sviluppo tecnologico ha il suo corso” e via col festival delle posizioni prese e frasi fatte. Tutti informati, pochi educati a guardare, ascoltare, imparare, fare esperienza.

Perchè la Natura è la prima esperienza, il primo stupore del bambino e del filosofo. La Natura è l’ambito in cui siamo stati messi in relazione-con. Questo rapporto è carnale non ideologico. Me ne sono accorta andando spesso di notte nei boschi, con i miei cani. Ogni respiro, ogni fruscìo, ogni odore, ogni goccia di rugiada può essere fonte di paura o di stupore. Paura quando non si è in rapporto appunto. Stupore quando si è lì per entrare in relazione con la sacralità del creato. Quando l’uomo non è in rapporto con la sua di natura, quella che ha il provilegio di avere coscienza, confonde il cane con il figlio.

E così un giorno ho visto per strada una signora con un passeggino.  L’ho sbirciata per l’inevitabile curiosità che un neonato fa vibrare e mi sono accorta che dentro c’era un cane di piccola taglia; io che allevo, mi sono così vergognata che ho deciso di fare qualcosa. Un libro, un incontro, poi altri incontri, un convegno, un dialogo che nasce, una ricerca, studio… e mi sono accorta che bisogna ricominciare da capo. Chi sono io? Dove sono? Perchè ci sono?

La risposta per me non è la Natura, ma essa è la compagnia che mi è stata data, l’ambito, la stagione, la bellezza, la carne, l’empatia in cui queste domande, insieme a uomini volenterosi possono trovare respiro e cura. Così ho deciso di raccontare, con un intervista, un frammento, un amico fotografo, un dibattito, con l’arte, con la medicina e le nuove scienze.

uomo_albero-200x300Ho fatto esperienza della natura buona e provvida, ho cambiato vita, luoghi, spazi e tempi del quotidiano. Ho chiamato in causa i grandi che ho avuto la fortuna di incontrare e che piano piano, parteciperanno a queste pagine, ognuno con la propria competenza.

Questo Magazine si chiama ENT, come gli alberi di Tolkien che proteggono la natura, gli alberi pastori. Questo Magazine è l’augurio di metterci al riparo innanzitutto dalla dimenticanza di noi stessi e di quel tramonto che una sera ci fece commuovere. Non più Aut-Aut ma insieme.

 

Scriveteci, partecipate, inviateci suggerimenti e correzioni, siate con noi e noi saremo con voi. Nella sezione “Naturalmente” partiamo con le prime esperienze di chi ha deciso di vivere e lavorare con la Natura.
E ora buona lettura!

 

Happy Earth Day!

Lettera a coloro che si stanno accorgendo che amare la natura significa rispettare se stessi.

Più si cresce, più le cose sembrano diventare complicate. Forse è semplicemente la nostra capacità cognitiva che si sviluppa e si diventa sempre più consapevoli di ciò che ci circonda. Da qualche tempo mi sto chiedendo cosa davvero sia la Natura. L’unica risposta che ho trovato è che Essa è in qualche modo tutto.

I moderni sistemi politici ed economici ci hanno insegnato a concepire noi stessi e gli altri come animali sociali, per cui la nostra percezione dell’essere è in qualche modo viziata da una visione che ci fa considerare le cose da un punto di vista non naturale, ma sociale. Per dire più “triste”. Infatti non trovo nulla di più affascinante e pieno di gioia del vedere una persona che vive a contatto con la Natura. E non dico una persona che vive nei boschi e in solitudine, ma una persona che ascolta ciò che gli sta accanto. Che “sente” sua la vibrazione delle acque, della terra, del cielo, del sole, della luna…

village-houses-nature-2805116-1920x1200Oggi questo rapporto con la natura si è complicata perché per troppi anni abbiamo abusato della terra prendendone le risorse, usandole e ritornando ad essa solo spazzatura. Ci siamo fatti padroni di un dono prezioso e adesso ci iniziamo a rendere conto di quanto sia compromesso. Nessuno sogna di vivere in una giungla di cemento; il cemento è sopportabile perché in un angolo nascosto della nostra coscienza c’è la certezza di poter trovare ancora un posto selvaggio dove poter trovare pace lontano da tutto e da tutti.

 

Filosoficamente questo posto potrebbe essere considerato un luogo ontologico: un desiderio di essere se stessi, una certezza che esiste un posto dove finalmente noi possiamo essere chi davvero siamo, felici.

Trovo molto difficile amare, perché l’amore vero ha il coraggio di guardare le ferite e respirare. Da prima il respiro è forte e sostenuto, poi si fa più calmo e pacato. É il respiro di fronte alle proprie ferite, alle ferite degli altri e alle ferite della Natura che una persona in pace con se stessa ha. Avere quel coraggio di respirare accettando se stessi e gli altri, senza bisogno necessariamente di cambiare qualcosa al momento, ma avere il coraggio di amare.aironi

Questo amore per la Natura penso che sia in questo momento più di ogni altra cosa necessario. In un mondo che socialmente e politicamente ci attira e porta in mille direzioni. C’é bisogno di un grande amore disposto a guardare, senza “giudizio”, semplicemente guardare per sentire in se quella ferita che la Natura ha in sé, e che noi abbiamo in noi stessi.

Solo dalla consapevolezza di ciò che si è e di ciò che ci circonda si può allora fare un passo, agire in modo non politico, ma reale. Essere mossi da un amore vero e generare una azione che sia tale.

In ogni grande o piccola ferita si può trovare una piccola o grande redenzione e bellezza. Bisogna solo avere quel coraggio e quella determinazione di guardare e lasciarsi guardare dalla Natura. Lasciarsi attraversare da quelle emozioni di dolore e paura che ci vengono nel vedere quanto abbiamo usato male di tutto, senza cura e rispetto. Facendo cosi, si può ritrovare quella speranza che ancora la Natura ci da un’altra possibilità di ricominciare. Non è troppo tardi per iniziare a guardare, ad amare, a cambiare.

Happy Earth Day!

Lupus in fabula

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Se un lupo si comporta come un cane… è perché è un cane.
Sì, forse sembro la cugina scema di Lapalisse. Però sta capitando sempre più spesso di leggere o di sentire racconti come questi: “Un lupo ha inseguito lo scuolabus, terrore tra i bambini!” (era un cane lupo cecoslovacco che amava seguire per qualche tratto il pullmino con sopra il bimbo di casa); “Un lupo mi è corso incontro scodinzolando, come se fosse un cane!” (e infatti era un cane: un altro cane lupo cecoslovacco); “Un lupo si aggira per il paese di XXX e si avvicina pericolosamente alle case!” (indovinate che cos’era? E ovviamente si avvicinava alle case perché in una di quelle case ci abitava!)
Quindi, lapalissiano o meno, mi sembra giusto ribadire che i lupi non potranno mai comportarsi come cani, perché non lo sono: perché il cane è un animale domestico e il lupo no.
Il lupo, in quanto lupo, ha una paura fottuta dell’uomo e non si avvicinerà mai a lui (a meno che non sia costretto dalle circostanze, ovviamente: ma che vada a bussare alla porta di casa, stile Lupo Cattivo di Cappuccetto Rosso, è proprio impensabile. Ed è altrettanto impossibile che corra incontro a qualcuno con aria festosa). 2013-12-01 at 12-37-35_lupo_europeo

Il fatto è che noi umani siamo strani, ma proprio strani forte: abbiamo creato una moltitudine di “wolf mix” (Cane lupo cecoslovacco, Cane di Saarloos, Wolf Hybrid americani) perché siamo morbosamente affascinati dal lupo (e con ragione: è un animale fantastico, che merita tutta la nostra attenzione)… ma poi, quando e se ci troviamo di fronte un animale che non sia immediatamente riconoscibile come cane (tipo: non ha addosso un collare o una pettorina, non ha la medaglietta, non ha un umano attaccato a un guinzaglio…), la prima cosa che pensiamo è “AHHH!!! Al lupoooo!”.
E ci sentiamo immediatamente uno dei tre porcellini (o la nonna di Cappuccetto rosso, a scelta. Ci hanno rincoglionito l’infanzia a forza di lupi cattivi: il sindacato dei lupi dovrebbe fare causa a Perrault, a Halliwell-Phillipps e pure alla Disney).

Purtroppo, in alcuni casi, i risultati sono già stati devastanti: alcuni cani lupi cecoslovacchi (razza di gran moda, al momento, in Italia) sono già stati uccisi a fucilate da deficienti convinti di trovarsi di fronte dei veri lupi. Ovviamente i deficienti non si sono neppure chiesti per quale motivo questi presunti lupi si avvicinassero fiduciosi e scodinzolanti: hanno sparato e bon, gettando nello sconforto le famiglie che hanno perso i loro adorati cani.
Allora, proviamo a fare un po’ di chiarezza su questo tema che sta diventando sempre più attuale, ricordando che:

  • se vedete un “lupo” aggirarsi in mezzo agli umani, potete star certi che si tratti di un cane;
  •  se un “lupo”, vedendovi, viene verso di voi e non scappa dalla parte opposta, è un cane;
  •  se un “lupo” vi guarda negli occhi e cerca in interagire con voi, è un cane.

Checché se ne dica, è difficilissimo distinguere un vero lupo da un CLC o un Saarloos: i primi CLC erano sensibilmente più piccoli di un lupo, ma ormai la razza si sta letteralmente ingigantendo (colpa dello Standard, che chiede un “minimo” di 65 cm per i maschi e di 60 cm. per le femmine, ma non indica un massimo: così, ben sapendo che gli umani si dividono in due categorie – quella del “più piccolo è, meglio è” e quella del “più ce n’è, meglio è” – gli allevatori ci hanno dato dentro a palate e stanno producendo cani come quello che una mia lettrice, pochi giorni fa, ha definito “alto come un SUV”).
Le differenze morfologiche reali (ampiezza dell’angolo orbitale, dimensioni della bolla timpanica, presenza o assenza della ghiandola precaudale) non sono valutabili “a occhio”, a meno di non essere super-esperti in materia.

Il fatto che siano difficili da distinguere morfologicamente, però, non autorizza a pensare che sia corretto sparare a qualsiasi animale che ricordi più o meno vagamente un lupo.
Ripeto: se si trova in ambito urbano, se non mostra paura dell’uomo , se non scappa, è quasi sicuramente un cane. 2014-05-18 at 10-57-21_clc
Quindi, vietato farsi prendere dal panico e soprattutto vietatissimo fargli del male: e lo stesso, in realtà, dovrebbe valere per i lupi veri, che non sono e non sono mai stati pericolosi per l’uomo, proprio perché lo evitano.
L’ultima aggressione documentata ad un umano da parte di un lupo risale all’Ottocento e pare che si trattasse di un animale affetto da rabbia (che è una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale, che come tale azzera tutte le inibizioni… però in Italia è anche stata debellata da tempo).
I lupi possono essere pericolosi solo per le pecore, anche se ci sono molti dubbi perfino sugli attacchi alle greggi, visto che la maggior parte di essi sembra essere opera di cani.
Se avete pecore in giardino, dunque, fate bene a preoccuparvi se intorno a casa vostra si aggira un animale dalle sembianze più o meno lupine: perché probabilmente è un cane, ma questo non esclude che possa mangiarsi Dolly. 
Se però avete questo tipo di preoccupazioni, la cosa che dovrete fare è telefonare all’ASL, segnalare la presenza di un cane incustodito e chiedere che venga catturato e portato al canile, dove si spera che gli venga letto il microchip e che possa essere riconsegnato al legittimo proprietario.2014-02-09 at 16-26-37_clc

Rovescio della medaglia: se siete voi gli orgogliosi e felici proprietari di un cane lupo cecoslovacco o di altro cane simile, non lasciatelo mai libero di andare a zonzo, se non volete rischiare che qualche porcellino particolarmente imbecille, anziché barricarsi nella sua casetta di mattoni, gli tiri una fucilata.

 

 

 

Pensavo fosse amore… di Pamela Giuttari

 

L’addestratore lavora con le persone al confine tra amore ed egoismo

Ho sempre amato gli animali, in particolare i cani, il loro mondo mi affascinava. Sono cresciuta con mio padre, amante dei cani quanto me e con mia madre che dei cani aveva timore; quando se ne incontrava uno passeggiando per strada io cercavo di divincolarmi dalle mani della mia mamma per correre ad accarezzarlo, nonostante lei li temesse, non mi ha mai vietato di conoscerli ne tantomeno di averne.

Ho avuto infatti il mio primo cane prima ancora di imparare a leggere e la passione verso questo mondo è cresciuta con me, un fuoco che bruciava lento, si è alimentato negli anni tanto da farmi scegliere di trasformare la mia passione in professione: “Voglio lavorare con i cani!”.

Ma chi si occupa di addestramento lavora davvero solo con i cani?

Chi viene addestrato? Il cane o il proprietario? Si lavora più su di uno o sull’altro soggetto?

Quando ho cominciato ad occuparmi di educazione e addestramento non avrei mai pensato di ritrovarmi a lavorare con le persone e invece è proprio ciò che faccio oggi.

Ma cosa fa un addestratore? Risolve i problemi dei cani?

Non mi è mai piaciuto parlare di “problemi comportamentali del cane”, non è nelle mie corde, non riesco a vedere un atteggiamento naturale dell’animale come un problema, sono doti, caratteristiche individuali ma non problemi, o perlomeno non problemi comportamentali del cane ma problemi gestionali del proprietario.

Quando un cane usa l’aggressività (per esempio) per uscire da una situazione di disagio lo fa perché l’aggressività è insita in lui a livello genetico, fa parte del repertorio naturale dei suoi comportamenti, lui morde e “risolve il suo problema”, ma ne arreca inevitabilmente uno al proprietario che non riesce più a gestirlo.

Allora perché parlare di problemi comportamentali? Io parlo di problemi gestionali.

Il nostro lavoro parte proprio da qui.

Il proprietario ci contatta perché ha un problema con il suo cane e non riesce a gestirlo.

La prima cosa che si nota è che tende a raccontare la storia del cane giustificando il “problema” e inserendo la causa:

“Il mio cane ha sempre adorato le persone ma da qualche mese ringhia a tutti e cerca di mordere perchè…”

Oppure:”…Non morde perché è cattivo, lui è buonissimo, morde per paura…”

Poi inseriscono dettagli della propria vita privata: “…Ha risentito del mio divorzio, gli manca mio marito…”

Oppure: “…Fa così perché è ansioso da quando è morto l’altro cane di casa…”

La maggior parte dei proprietari pensano di sapere già le cause del comportamento del proprio cane, molti tendono ad umanizzare i comportamenti o a vederli simili ai propri e di conseguenza li associano a cause prettamente “umane”.

Ma quanto incide lo stato emotivo del proprietario sul comportamento del suo compagno a QuattroZampe?

Moltissimo!

Spesso l’uomo tende a colmare i propri “vuoti sentimentali”, le proprie “mancanze”, o a cercare di superare i problemi, momenti di stress o tristezza, riversando tutte le proprie emozioni sul cane, ma un cane per quanto ci ami, non è un uomo, non può capire ciò che gli diciamo, spiegare ad un cane che l’azienda è in crisi e che si fatica ad arrivare a fine mese parlandogli mentre lo coccoliamo nel letto per l’uomo é appagante, ma per il cane?

Il proprietario non se lo chiede, perché lo ama e questo gli basta per sapere che il cane sta bene.

Spesso ci troviamo nella situazione in cui dobbiamo spiegare ad un proprietario che il suo atteggiamento fa del male al cane e non è semplice perché ogni proprietario fa errori ma li fa in buona fede, alcuni si offendono, altri si colpevolizzano, altri rispondono irritati “IO AMO IL MIO CANE!” Oppure “IO CI VIVO! LO CONOSCO MEGLIO DI CHIUNQUE ALTRO”.

La linea tra il troppo amore e l’egoismo è sempre più sottile.

A volte i problemi derivano dal fatto che i cani vengono gestiti e trattati come bambini.

Viziare un cane può farci sentire bene, ma non sempre (anzi, quasi mai) è ciò di cui ha bisogno.

Alcuni proprietari trovano appagamento nel viziare il proprio cane, per non rinunciare a farlo e per sentirsi meno in colpa, si autoconvincono che sia il cane a volerlo o che il cane ne sia felice. casino cane

Un cane che dorme nel letto matrimoniale con i proprietari e nel momento in cui gli si chiede di scendere ringhia o peggio ancora li attacca, sul quel letto non ci sarebbe mai dovuto salire ma capita spesso di sentirsi dire “NON SO SE ME LA SENTO DI NON DORMIRE CON LUI, A ME FA PIACERE AVERLO NEL LETTO”, -a me fa piacere- non è una frase dettata dall’amore per il proprio cane ma dall’egoismo del proprietario.

L’addestratore non ha la bacchetta magica, non può risolvere i problemi guardando il cane o prendendolo al guinzaglio due volte.

Il percorso di risoluzione di un qualsiasi problema parte dalla volontà del proprietario, è necessario essere consapevoli del fatto che il percorso potrebbe essere lungo e faticoso a livello emotivo ma soprattutto che SI DOVRANNO CAMBIARE ALCUNE COSE, perché se il problema esiste, significa che ciò che è stato fatto fino ad ora non è sufficiente oppure non è corretto.

L’addestratore non è ne uno psicologo né un assistente sociale, ma spesso i proprietari hanno più bisogno dei loro cani di essere accompagnati nel percorso.

Purtroppo capita a volte di non poter aiutare un cane perché il proprietario non è propenso a cambiare il modo in cui lo gestisce, perché non accetta suggerimenti, perché fondamentalmente vorrebbe risolvere il problema subito, senza sforzi e senza togliere quei vizi che appagano tanto gli umani.

Mi piace avere un buon feeling con i miei clienti, instaurare un rapporto di rispetto e fiducia reciproca, alcuni sono entrati a far parte della mia vita diventando anche buoni amici, ma non si può aiutare chi non vuole essere aiutato.

Per quanto a volte ci si sforzi di trovare il modo giusto per dire le cose, non sempre ne esiste uno indolore, se si ha a cuore il benessere del proprio cane, si deve mettere da parte l’egoismo e lavorare per lui.

Oggi il mio sogno, la mia passione sono diventati anche la mia professione e mi rendo conto che il mio iniziale esclamare “voglio lavorare con i cani” è un’utopia. pam405_1655840491288013822_n

Un buon addestratore lavora con le persone oltre che con i cani, ma non può dirvi solo ciò che volete sentirvi dire e a volte si trova costretto a dire “mi spiace ma non posso aiutarvi”, e non lo fa perché non sa risolvere il problema che gli avete presentato, ma perché sa che non sarete disposti a fare nulla di ciò che vi consiglierà di fare.

Amare il proprio cane significa rispettarlo, comprenderlo e aiutarlo nel momento del bisogno, lavorare con un cane implica mettersi in discussione, il “non posso farlo perché lo amo troppo” non esiste. Il troppo amore e l’egoismo sono divisi da una linea sottile.

di Pamela Giuttari

 

 

Pamela Giuttari (nella foto di Stefano Castellari), addestra, educa e si diverte presso Intus Canem

 

Agnelli sacrificati. Un anno fa Stefano di Michele letto per voi.

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Un articolo interessante ripescato dopo un anno, Stefano di Michele su IL FOGLIO racconta le contraddizioni del pranzo di Pasqua. Lo riportiamo come contributo a discussioni spesso isteriche.

 

Agnus Dei

Qui si eleva un inno alla sacralità degli animali

Gesù morì sulla croce nel momento in cui venivano immolati gli agnelli pasquali. Il rito si ripete, ma in macelleria e sulla tavola. Storie di uomini e bestie, di fede e sangue, di amori e crudeltà

 

“Tra gli animali non hai un solo amico. E la chiami vita?” (Elias Canetti, “Il cuore segreto dell’orologio”, Adelphi)
“O Dio, aiutaci ad amare tutte le cose viventi, i nostri piccoli fratelli a cui Tu hai dato questa terra come casa insieme a noi…” (San Basilio, vescovo di Cesarea)
“L’uomo è l’animale diventato pazzo…” (Friedrich W. Nietzsche)

Sì, certo. Però è così chiaro. Ma sono lo stesso confuso, adesso. Sto guardando i miei piedi. Eppure è chiaro. Chiaro come lo starec Zosima. Chiaro come Dostoevskij che gli dà respiro e vita: “Amate tutta la creazione divina, così in blocco, come in ogni granello di sabbia. Per ogni minima foglia, per ogni raggio del sole di Dio, abbiate amore. Amate gli animali, amate le piante, amate le cose tutte. Se amerai tutte le cose, penetrerai nelle cose il mistero di Dio…”. Dice ancora, il saggio (e santo) monaco: “Gli animali abbiano l’amor vostro; ad essi il Signore ha donato un germe di pensiero e una gioia imperturbabile. Non turbatela voi, non li fate soffrire, non togliete loro la gioia, non contrastate il disegno di Dio. Uomo, non ti fare grande di fronte alle bestie. Esse sono innocenti, mentre tu, grande come sei, appesti la terra fin da quando ci fai la tua apparizione…” (Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”). E’ così chiaro, vero, non credete? Allora perché…

Mica è difficile da capire. Limpido, addirittura. Luminoso. Il sangue, invece, per sua natura non lo è – è denso, puzza. Fa vomitare, il sangue. Cola lento. Scorre come lava. Come respiro asmatico. Ma il sangue non lo vediamo: consumatori accaniti di tutto ciò che al sangue segue (come ombra, come doppia ombra, come macina al collo che tira a fondo: di cibi, di scarpe, di pellicce, di caccia, di cosmetici, di divertimenti), il sangue rimuoviamo. Nessuno ce lo fa vedere – non lo vogliamo vedere. Non esiste, non esiste, non esiste. Scivola, riempie vasconi dove gole tagliate sussultano e si vuotano, sparisce per misteriosi canali di scolo. Non lo vediamo – così non esiste: è l’assenza di immaginazione che rende perfetto il crimine. Neanche la cattiveria, vediamo. Non ci riguarda, noi non siamo mica cattivi. La pratichiamo – e la ignoriamo. La vediamo praticare – e soprattutto allora la ignoriamo. E’ il silenzio dei giusti, hanno detto, peggiore persino della crudeltà stessa. Andrebbe trattata con disgusto la crudeltà – col vomito in gola che (quasi) ognuno di noi proverebbe nell’affondare i piedi nel sangue, nell’immergere le mani nel sangue, nell’ingurgitare sangue, nel coprirsi di sangue come se fosse un terrificante altare biblico. Prima ancora che con lo sdegno. Prima ancora che con la morale (ché certe volte i moralisti la crudeltà stessa precedono). Disgusto – ecco, non siamo abbastanza disgustati: finché regge lo stomaco, resta salda la coscienza. “La cattiveria la trattava con disgusto”, racconta Amos Oz di suo nonno Naftali Hertz, in quel libro d’incanto che è “Una storia di amore e di tenebra”. Diceva, il nonno: “Bestia feroce? Cosa vuol dire bestia feroce? – così rifletteva in yiddish – Nessuna bestia è feroce di per sé. Nessuna bestia è capace di essere cattiva. Le bestie non hanno ancora scoperto il male. Il male è monopolio nostro, del vanto del creato…”. E c’è, nel “Libro dei morti”, quel defunto che si presenta per il giudizio finale, e può dire: “Non ho maltrattato le bestie, non ho dato la caccia agli animaletti nascosti tra i cespugli, non ho intrappolato gli uccelli degli dèi…”. E una sera, tanti anni fa, in una specie di mansarda di San Salvario, a Torino, dove viveva, un vecchio prete operaio mi raccontava (sognava?): “Pensa se fosse solo l’errore di qualche copista sbadato, che secoli e secoli fa scrisse che l’uomo è il padrone di ciò che Dio ha creato solo perché confuse la parola ‘padrone’ con la parola ‘custode’. Ecco, fossimo stati i custodi del mondo e delle sue creature, invece che i padroni, sarebbe stata migliore la nostra storia…”. Allora magari Lui ci chiederà: cosa avete fatto alle mie creature? “Penso di sì”. Perché la terra e gli animali (dice un racconto de “Le mille e una notte”, scrive Marguerite Yourcenar) “tremarono il giorno in cui Dio creò l’uomo”, e ancor di più quando “l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche” (la “Genesi”) – perché forse abbiamo assaggiato la mela sbagliata, diceva nonno Naftali Hertz, non quella dell’albero della conoscenza, piuttosto dell’albero della cattiveria. L’albero del male.

Siamo cattolici – perché il Dio cattolico ci è toccato in sorte. Perciò siamo indissolubilmente legati all’uomo che si fece mettere in croce – macellato a frustate, a colpi di chiodi, a colpi di lancia nel costato, a colpi di insulti. L’uomo il cui sangue colava come cola il sangue delle bestie nei macelli, come il sangue delle bestie braccate dai cacciatori, come il sangue delle bestie nelle arene – e pure il figlio di Dio, come loro, non capiva e si stupiva e provava dolore e spavento. L’uomo che si fece agnello – e il suo sangue il sangue della bestia innocente macellata e versato sugli altari dai sacerdoti sostituì. Nel preciso, esatto momento in cui il figlio di Dio moriva assassinato, i piccoli animali venivano assassinati. Facile da capire, vero? Lo ha detto Papa Benedetto XVI, in una bellissima omelia per il Giovedì Santo del 5 aprile 2007 – la Messa della Cena (appunto) del Signore: “Secondo Giovanni, Gesù morì sulla croce precisamente nel momento in cui, nel tempio, venivano immolati gli agnelli pasquali. La sua morte e il sacrificio degli agnelli coincisero”. Simile all’innocenza degli agnelli squartati, l’Agnello sulla croce inchiodato. Spiegava ancora meglio, Joseph Ratzinger, quel giorno nella basilica di San Giovanni, che sembrerebbe esserci discrepanza tra la morte di Gesù nel vangelo di Giovanni e quella narrata dagli altri evangelisti. Ma ecco, furono scoperti gli scritti di Qumran. “Siamo ora in grado di dire – disse Papa Benedetto – che quanto Giovanni ha riferito è storicamente preciso. Gesù ha realmente sparso il suo sangue alla vigilia della Pasqua nell’ora dell’immolazione degli agnelli. Egli ha però celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il calendario di Qumran, quindi un giorno prima – l’ha celebrata senza agnello, come la comunità di Qumran, che non riconosceva il tempio di Erode ed era in attesa del nuovo tempio. Gesù dunque ha celebrato la Pasqua senza agnello – no, non senza agnello: in luogo dell’agnello ha donato se stesso, il suo corpo e il suo sangue”. Con san Giovanni Crisostomo, quella sera il Papa chiamava in causa anche Mosè: “Che cosa stai dicendo, Mosè? Il sangue di un agnello purifica gli uomini?”. E dunque: “Gesù celebrò la Pasqua senza agnello e senza tempio e, tuttavia, non senza agnello e senza tempio. Egli stesso era l’Agnello atteso, quello vero, come aveva preannunciato Giovanni Battista all’inizio del ministero di Gesù: ‘Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie i peccati del mondo!’… Il gesto nostalgico, in qualche modo privo di efficacia, che era l’immolazione dell’innocente e immacolato agnello, ha trovato risposta in Colui che per noi è diventato insieme Agnello e Tempio”. Innocente. Immacolato. Così diceva Papa Ratzinger dell’agnello. Di quelle creature innocenti e immacolate, in questi giorni ne abbiamo sgozzati circa settecentomila/ottocentomila. Tanto di quel sangue da sommergere ogni altare e ogni tavola imbandita. Come se Cristo non si fosse fatto lui stesso Agnello, mettendo il suo corpo nudo e macellato tra la bestia innocente e la lama che sta per assassinarla.

Torneremo all’agnello – perché è dall’Agnello che veniamo. Perché è il suo pianto che in questi giorni, ancora (non) abbiamo ascoltato. Viviamo tra milioni di creature che sono altro da noi – ed essere altro non è essere meno di noi: che ignoriamo, che scuoiamo, che torturiamo, che strangoliamo, che laceriamo, che tagliamo, che imprigioniamo, che picchiamo, che insultiamo. Feriti. Braccati. Cucinati (c’è un immaginario in estasi, tra succhi gastrici danzati, persino davanti al terrificante “Bue squartato” di Rembrandt, o a quello non meno terrificante di Soutine: ché anche loro, guardate bene, è come se fossero in croce: sono chiodi, i ganci). Che ingurgitiamo – nei nostri affanni di digestione, anziché di cuore – “lacerare le carni di un agnello vivo con i soli denti, e affondare la testa dentro i suoi intestini, estinguere la propria sete nel sangue fumante”, questo chiedeva il divino Shelley ai vili divoratori. Animali che pure amiamo – per fortuna. I migliori tra di noi lo fanno. I coglioni maggiori diranno che anche Hitler lo faceva – e allora? Gli piaceva pure Wagner, smettete di sentirlo? Le montagne, smettete di guardarle? Magari la birra, smettete di berla? Era austriaco, avrà certo apprezzato la sacher, vi fa schifo? Mandava gli omosessuali nei campi di concentramento (non c’è mostro che sfugga al mito mefitico di Sodoma che arde) – ecco, ho il sospetto che qualcuno di loro potrebbe non disprezzare del tutto l’ipotesi: ah, il gusto di sacrificare una checca a Cristo! Se pure uno psicopatico assassino di massa ha un lampo di compassione, quella compassione è un buco nel suo cuore, non in quello di chi compassione sa provare per la bestia come per il suo simile. E’ stato un grande scrittore ebreo, Isaac B. Singer, premio Nobel, a scrivere: “Fino a che gli esseri umani continueranno a spargere il sangue degli animali, non ci sarà alcuna pace. C’è solo un piccolo passo da fare dall’uccidere degli animali al costruire camere a gas di stampo hitleriano e campi di concentramento in stile staliniano (…) Non ci sarà giustizia finché un uomo brandirà un coltello o un’arma per distruggere coloro che sono più deboli di lui”. A me questo basta. A me basta Adorno: “Auschwitz inizia quando si guarda un mattatoio e si pensa: sono soltanto animali”. A me basta quel piccolo immenso aneddoto che ne “Le lacrime di Ulisse” racconta Roger Grenier: “Emmanuel Levinas, deportato in Germania e assegnato a una squadra forestale, composta di prigionieri di guerra di origine ebraica, vede che agli occhi dei guardiani e persino dei passanti non appartiene più alla specie umana. Poi un cane randagio viene a unirsi a loro. ‘Per lui – non c’era alcun dubbio – eravamo uomini’”. A me basta.

Viviamo tra miliardi e miliardi di altre creature. E milioni vivono con noi. Nelle nostre case. Nella nostra vita. (Dall’ultimo rapporto Eurispes: il 40 per cento degli italiani ha uno o più animali in casa: un cane, nel 53,7 per cento, un gatto nel 45,8 per cento. Seguono uccelli, pesci, criceti. Più della metà di loro spende meno di trenta euro al mese per il loro mantenimento. Il 30 per cento fino a cinquanta euro. Il 6,7 per cento fino a trecento. Altri oltre. Per le visite veterinarie quasi il 70 per cento spende fino a cento euro l’anno. Poco meno del 20 per cento fino a duecento euro. Sette milioni i cani, sette milioni e mezzo i gatti, sedici milioni i pesci – più o meno). E’ antico, l’amore per gli animali. Piangeva Ulisse quando a Itaca ritrovò triste e morente il suo cane Argo – l’unico a riconoscerlo. E Xanto e Balìo, i cavalli di Achille, piangevano per la morte dell’amato Patroclo. E insegnava Buddha che è “molto meglio impedire a una bestia di soffrire, piuttosto che restare seduto a contemplare i mali dell’universo, pregando in compagnia dei sacerdoti”. E Zarathustra: “Chi uccide un cane uccide la sua anima”. Avendone – forse, di anima. Ci sono di quelli tra di noi che hanno rigurgiti di ferocia tribale là dentro dove l’anima annaspa – e anzi, per legge pure i cani randagi e quelli nei canili farebbero sopprimere, vomitando principi da piccola apocalisse raccattati chissà dove. Evocano i pagani: Zeus, se ci sei, manda una fulminata! – presupponendo forse che un giorno al Padreterno faccia piacere ritrovarsi in loro compagnia. Poco prima di suicidarsi, ad appena trent’anni, lo scrittore svedese Stig Dagerman annotò la dichiarazione di un funzionario della previdenza sociale di Varmland (ci deve essere un gelo, da quelle parti!): “Certo è deplorevole che gente che vive di sussidi tenga poi un cane” – ai poveri e ai vecchi dobbiamo forse pagare pure la bestia da compagnia? “Se ne stanno in anguste stanzette / coi loro costosi bastardi. / Perché non giocano con le mosche? / Non sono animali da compagnia? / E al Comune tocca pagare. / Bisogna farla finita / o c’è da temere / che si comprino delle balene. / Una decisione va presa: / abbattere i cani! Non è una buona idea? / Il prossimo provvedimento: abbattere i poveri. / Così il Comune risparmierà qualcosa”. Aveva ragione Mark Twain quando diceva che l’uomo è l’unico animale capace di arrossire – perché è l’unico che ne ha bisogno. (Mi raccontano di una signora – magione in centro, villa al mare, casa in montagna: si suppone, dunque, danarosa signora, non la povera vecchia capace di ossessionare il funzionario di Varmland – che non vuole spendere i seicento euro per far operare la sua vecchia cagnetta. Troppi soldi, per la bestiola anziana! Tutti quei soldi! C’è da sperare nel giusto riequilibrio che solo potrebbe ripristinare un abile borseggiatore).

E’ perciò umanamente (e piacevolmente) sorprendente, il Berlusconi con Dudù. Politicamente, sarebbero necessari, e chissà se mai basterebbero, tutti i 101 cagnetti della carica (ma questo è altro discorso, c’entra nulla). Però umanamente colpisce il suo “mutamento di cuore”, ciò che è stato cambiato dallo sguardo di una bestiola, ciò che l’ha spinto (credo per reale mutamento, ma fosse pure solo per convenienza: viva le buone convenienze!) persino a sfidare l’altrui ironia cretina – degli avversari, ma anche dei suoi: sottovoce, però, con la coda tra le gambe. Un “mutamento di cuore” di cui nessun altro politico è stato capace – o è stato toccato o ha potuto. Scriveva Anna Maria Ortese che “chi non ha mai guardato negli occhi di un figlio o di una figlia della Natura, non ha mia visto nulla di paterno o di materno; non ha mai visto nulla di divino – per significare benevolenza, pace – per quanti possano essere gli altari a cui si sarà inginocchiato”. Mica penso che Berlusconi si sia spinto fino a questo punto di mutamento, questo no, ma c’è un principio di buona e saggia pazzia che agisce in lui, questo sì. Un po’ Erasmo e un po’, detto con assoluta considerazione, Brigitte Bardot – invecchiata con splendide rughe e splendida follia, quando ha affidato a ciò che è stato la meraviglia che lei fu, “non rifiuto il mondo, ma la sua promiscuità”, e si è buttata in una lotta che ha mutato il corso dell’intera sua vita, “ci sono più leggi per le auto che per gli animali, si rende conto?”. Se Dudù così tanto ha potuto, è forse perché il cuore (stanco) del Cavaliere così voleva. Fosse pure per stanchezza, per tardiva consolazione – o per divieto d’altro. (Sospetto: magari adesso sbucano fuori gli antiberlusconiani più cretini, quelli a vigilanza perpetua, che a perpetua idiozia potrebbero rimproverare: ah, pure tu gli animali, come Berlusconi!, a perfetta similitudine con l’idiozia di chi rimprovera: ah, pure tu gli animali, come Hitler! Ce ne sono, di idioti simili vaganti).

Se si concedesse un po’ più di tenera follia, Berlusconi! Magari. Come il suo Erasmo, antico amore coccolato e un po’ abbandonato ai bordi dell’autostrada delle sue umane vicende, potrebbe presentarsi con le sue esatte parole: “Comunque si laceri ordinariamente dagli uomini la mia reputazione, e il so ben io quanto il mio nome suoni male anche all’orecchio dei più stolti, tuttavia ho il vanto di dirvi che questa Pazzia che voi vedete, sì questa Pazzia, è quella sola che ha il potere di rallegrare gli dèi e i mortali…” – non sono forse metafore perfette? Potrebbe allora, come William G. e Neera H., nel “Diario della tartaruga” di Russell Hoban, rubare le bestie imprigionate in qualche zoo e liberarle nel cuore della notte nell’oceano – va bene, non disponendo al momento del passaporto, anche nel Mediterraneo – accompagnandosi pure lui, per infine ritrovarsi, con i versi di Eliot: “Spunta l’alba e un altro giorno / si prepara al calore e al silenzio. Laggiù nel mare il vento dell’alba / increspa e scivola. Io sono qui / o là, o altrove. Nel mio principio”. Mutarsi persino, Berlusconi, in una sorta di Christopher Smart, poeta inglese del Settecento (di media bravura, di medio rilievo: cioè, quasi da tutto assente nella sua cauta mediocrità) che trova la sua gloria definitiva nel momento in cui impazzisce, e comincia a scrivere dal manicomio il suo “Jubilate Agno”, dove uomini e animali si sommano, e su Dio la benedizione degli animali invoca – “Aronne, sommo sacerdote, santifichi un Toro e lo lasci andare libero al Signore e Donatore di Vita” – ogni animale invoca, “perché l’uomo pietoso è pietoso verso il suo animale”, e pagine e pagine di scintillanti metafore per il suo gatto Jeoffry: “Poiché come sentinella del Signore veglia nella notte contro l’avversario… Poiché il Cherubino Gatto è un termine dell’Angelo Tigre…

Poiché ronfa di gratitudine quando Dio gli dice che è un buon Gatto… Poiché ogni casa è incompleta senza di lui e nello spirito manca una benedizione… Poiché è odiato dall’ipocrita e dall’avaro… Poiché facendogli carezze ho scoperto l’elettricità… Poiché ho sentito in lui la luce di Dio cera e fuoco insieme…”. O prendere ad esempio la bella follia di Guido Ceronetti, che col suo (allora) giovanile bastone distrugge l’insegna sacrilega di una macelleria che promette polpette di cavallo – furia simile a quella di Jorge Luis Borges, che altra simile sconcia insegna scrutava a Buenos Aires: “Più vile di un lupanare / la macelleria sigilla come un affronto la strada…”.

E se Berlusconi non ha certo maturato una radicalità come quella della Ortese, lo stesso può ora intendere l’urlo disperato della scrittrice – urlo che per decenni l’ha inseguita senza che giungesse risposta, e dunque senza pace, come lo sguardo della Tartarughina del Levante, “sì, guardava me, proprio me! Alzò gli occhi su quella triste distanza” – che per tutta la vita continuò a piangere Laika, la cagnetta mandata nello spazio, persa tra le stelle – chissà dov’è finita, chissà che cosa ha visto. “Penso talora, è strano, anche a Laika, la cagnetta che fu mandata, dicono, nello Spazio Esterno (definizione di Milton per gli abissi senza speranza che circondano l’Universo), e che forse avrà chiamato infinitamente gli umani. Vorrei gridare: Laika! Siamo qui! Ti amiamo! Torna indietro, Laika! Sì, sono questi i miei sogni: la resurrezione, il ritorno di tutti i morti nell’ingiustizia. Già la morte è ingiustizia. Ma l’ingiustizia, talora, come per Laika, è più ingiusta di ogni altra cosa ingiusta. E’ del tutto il segno della disgrazia di Adamo, dice l’orrore della intelligenza di cui si è fidato. Dice che non bisognerebbe più fidarsi di questa guida. Tornare indietro!” (“Corpo celeste”, Adelphi). E delle mille e mille e mille storie vere di animali così in simbiosi con l’umano che li ha amati da morire per loro, da lasciarsi morire per non sopravvivere alla loro morte. E Laika è Pestruska – nel racconto “La cagnetta” di Vasilij Grossman: la presero, la bestiola vagabonda, “nessuno aveva bisogno del bene che viveva nel suo cuore”, l’addestrarono all’Istituto (Aleksej Georgievic l’addestrò, e al suo addestratore lei diede il suo cuore buono), le diedero un nome (quando di un essere gli uomini vogliono impossessarsi, gli danno un nome: mica per rispetto, piuttosto per migliore contabilità di possesso), la spedirono nello spazio – sentirono il cuore saltare nell’infinito. “‘Ha ululato, ha ululato a lungo’. E aggiunse, a voce bassa: ‘E’ una cosa agghiacciante, il lamento di un cane solo in mezzo all’universo’…”. Però Pestruska tornò, o sognò di tornare, dagli abissi di Milton, non come Laika – che lì si perse, che lì fu abbandonata. E incontrò di nuovo Aleksej Georgievic – che vide qualcosa che non aveva ancora visto. “Finalmente lui riuscì a vedere i suoi occhi: gli occhi annebbiati, impenetrabili di un povero essere dalla mente confusa e dal cuore tenero e mansueto”.

Succede così, quando succede – quando ci si innamora (qualsiasi cosa la parola amore si porti dietro), quando un essere entra nel nostro sguardo, e per sempre modifica l’orizzonte della nostra vita, fino al paesaggio estremo su cui chiuderemo gli occhi. Amori veri, amori letterari – che amori veri possono generare. Così che sempre Mumù, la cagnolina di Turgenev adottata dal povero servo Gerasim, sordomuto e oscuro a tutti – e che allora solo “mù-mù” riesce a dirle, e che poi la sua orribile padrona, una vecchia stronza aristocratica, gli ordina di far sparire. E sarà Gerasim in persona a doverla annegare tra le lacrime. (Se ne dolse, della novella, la stupidità burocratica di un viceministro, ché la rappresentazione dell’aristocratica carogna “può facilmente indurre i lettori di classe inferiore a biasimare i rapporti esistenti nella nostra patria fra i servi e i loro proprietari. Tali rapporti, in quanto istituzioni dello Stato, non devono essere sottoposti al giudizio del singolo”: così l’idiota ministeriale scrisse, protestando, alla sbadata censura). Oppure il poeta matto Willy G. Christmas e il suo cane Mr Bones, creati da Paul Auster (“Timbuctù”, Einaudi): si aggirano, si separano e finiranno col ritrovarsi a Timbuctù – e Mr Bones ci arriva, in quella terra fantastica dove uomini e cani parlano la stessa lingua, e possono meglio discutere e capirsi, sacrificando se stesso sull’asfalto di un’autostrada. “Sulle prime Willy lo avrebbe disapprovato, ma solo perché avrebbe creduto che Mr Bones fosse arrivato fin lì togliendosi la vita. Invece Mr Bones non si proponeva nulla di così volgare. Voleva solo fare un gioco, quella specie di gioco che qualsiasi cane malato e pazzo avrebbe tentato. E lui adesso era questo, no? Un vecchio cane pazzo e malato”. E Muchtar, il cane poliziotto di Izrail’ Metter che solo il caso salva dalla morte a opera degli umani irriconoscenti – e lì in gabbia finisce i suoi giorni di astuto e tenero Maigret che ha attraversato senza perdere il candore il furore del regime comunista – “guardavano sprezzanti il vecchio cane malandato e zoppicante senza sapere niente della sua vita, e senza comprendere per quale motivo andasse ancora arrancando in questo meraviglioso creato”. Mr Bones, Mumù, Argo, Muchtar, Pestruska – e Laika (che abbiamo perso, nel nostro planetario egoismo: voleva solo un piccolo prato, abbiamo deciso che le toccava un cielo troppo grande) – ci mettono a disagio per questo: la loro totale fiducia, anche quando il padrone li abbandona, va via, li caccia. Li uccide – persino in quel punto estremo, quel totale amore, quell’abbandono: ciò che non meritiamo ci viene donato (persino quando viene vivisezionata, la bestia lecca la mano al torturatore, spiegava Charles Darwin). Questo dono immeritato un giorno diventerà come un sacco di pietre sul petto: farà finire il respiro.

Ricordate la splendente Anna Magnani? Lei non poteva dimenticare Laika: “Amo le bestie perché non ti fanno del male. Ho pianto una settimana quando i russi misero Laika dentro lo Sputnik, pregavo la Madonna perché la salvasse…”. “I cani sono proprio degli angeli che Dio ha mandato sulla terra sperando che l’umanità diventasse migliore. I loro occhi. Non c’è poeta al mondo che possa descrivere gli occhi di un cane in certi momenti. Come vedi anch’io alla mia maniera sono matta! Son matta e triste come sempre”, scriveva al suo amico Tennessee Williams, che a Roma trascinava in vagabondaggi notturni per portare da mangiare ai gatti randagi ai Fori, al Colosseo, a Villa Borghese. Così che quando Anna morì, nella cattedrale di St. Patrick a New York la ricordò l’autore di “Zoo di vetro”: “Sono sicuro che il fantasma di un gatto affamato di Roma siede qui tra noi in questa cerimonia di addio a una grande anima, la nostra cara Anna”.

C’è un libro semplice e incantevole, che molto spiega della magia di questo legame tra bestia e umano – proprio ciò che chi non capisce disprezza, essendo egli stesso, spesso, disprezzabile. Il libro si intitola “Una donna e altri animali” (Rizzoli), l’ha scritto Brunella Gasperini: una giornalista che scriveva, come si diceva, sui “giornali rosa”, rispondeva alle lettrici – aveva ironia, intelligenza, compassione, in un’Italia molto conformista. E pochi mesi prima di morire, siamo alla fine degli anni Settanta, si raccontò attraverso i tanti animali della sua vita: i cani, i gatti, i merli… E allora, quando i suoi anni stavano per finire, di notte si svegliava con spavento, dopo aver visto in sogno i suoi fratelli, uccisi tanti anni prima dai nazisti e dalle brigate nere. E con loro il cane Baffo – era l’autunno terribile e di spavento del ’43. I ragazzi e la bestia aiutavano gli amici ebrei che scappavano a passare il confine con la Svizzera – e Baffo (fin da cucciolo, di precoce intelligenza, atterrava nelle strade di Milano preti in tonaca e sbirri mussoliniani) avvertiva del rischio, andava in avanscoperta, bloccava il piccolo corteo di fuggiaschi in caso di pericolo. Proteggeva. “Non so se si rendesse conto che salvava delle vite umane: ma so per certo che era fiero del suo lavoro, e felice di farlo (…) Per il Baffo furono certamente i mesi più belli della sua bellissima vita: sentirsi utile, importante e amato lo riempiva di felicità e di ingegno. Anche lui credeva nel suo gioco. Morì da partigiano, un colpo in testa, per difendere chi amava”. Sognava, Brunella, la sorella sopravvissuta di tanti fratelli, alla fine degli anni Settanta – sognava la valle, le montagne, il confine svizzero. La paura, sognava. “Poi c’è il Baffo e ci sono loro. Forse ci sono anch’io, ma non mi vedo. Vedo il Baffo che urla a denti scoperti, il pelo irto, pronto a saltare. Poi cade, e non lo vedo più. Poi cadono anche loro, a uno a uno, e non li vedo più. Ho le braccia sugli occhi, ma so che sono morti (…) Subito prima di svegliarmi, quando sono già tutti caduti, in un lampo lunghissimo vedo apparire e cadere, al rallentatore, i miei figli”.

Così vicina al nostro limite estremo, spesso, la bestia. Che cuore e sentimenti e orizzonte ha mutato – con un impatto e un coinvolgimento che spesso l’arida ragione fatica a comprendere. E perciò in fondo, alla fine della saga del “Gattopardo”, quando tutto quel che resta è polvere e sogni finiti e dissoluzione di un mondo, nelle ultime pagine, né il cardinale “sontuoso volatile rosso” che si aggira nel palazzo, né le sorelle Salina condannate alla dimenticanza, né le vacue reliquie occupano la scena: ma la pelliccia tarlata del povero Bendicò, il cane del Gattopardo – ormai da quaranticinque anni morto, e fatto appositamente imbalsamare: di tutto, un mucchio di peli pieni di tarme resta. L’ultimo atto è l’ordine di Concetta a una serva di buttare quel polveroso rimasuglio di bestia. “Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo, quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno. Durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi, e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”.

Come a volte possa accadere il miracolo di vite diverse che si sommano e si mischiano e si scambiano persino, bene lo spiegava Goffredo Parise, che appena un anno prima di morire prese in casa il cane Petote – e scriveva di ciò che sul bordo ultimo della sua bella vita stava imparando: “Da alcuni mesi ho un cane e il conoscere questo animale mi ha profondamente turbato perché ho dedotto la convinzione che tutti gli animali e non solo il mio cane abbiano un’anima. La presenza del mio cane è parlante; si avverte un’anima anche se non ha la parola per esprimerla…”. E ciò che Parise chiama anima, altrove – nella Bibbia, nell’Ecclesiaste, è chiamato soffio. E così quel soffio – qualunque cosa sia, identici ci rende: per noi e per loro, per uomini e bestie, è detto che lo stesso è. “Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità”. Ed è detto altro – e con più forza, nel Qoelet: “Chissà se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?”. Saranno ancora una volta faccia a faccia, nel Giudizio Finale, il divorato e il divoratore?

L’Antico Testamento, però, non dà molto scampo. I suoi libri traboccano sangue – degli uomini, degli animali. Sangue versato nel nome di Dio – il fondo di orrore che ancora oggi ci insegue. E’ il Dio furente, incontentabile, permaloso, vendicativo – tuono e pena, sempre, “e votò allo sterminio ogni essere che respira, come aveva comandato il Signore, Dio di Israele”. E’ pieno di olocausti, di sacrifici espiatori – l’Antico Testamento. Sugli altari elevati a Dio, le creature di Dio vengono sgozzate. A decine, a centinaia, a migliaia, dalle più minute alle più gigantesche – e il sangue si sparge sugli altari, così che ogni altare appare come una barca che sul sangue galleggia, e sulla terra, “perché il sangue è vita; tu non devi mangiare la vita insieme con la carne”, così non resta, forse, che divorare i morti. “Ma, ogni volta che ne sentirai desiderio, potrai uccidere gli animali e mangiarne la carne in tutte le tue città, secondo la benedizione che il Signore ti avrà elargito…” (dal “Deuteronomio”). Ecco, vedi, diranno i finti sapienti, il cui stomaco ulula per il desiderio di cotoletta e filetto – al sangue, però, al sangue: Bibbia o non Bibbia! – lì è detto chiaro: gli animali si possono mangiare, anzi in dettaglio è detto, “immolerai la Pasqua al Signore tuo Dio: un sacrificio di bestiame grosso e minuto…”, a noi il cosciotto! Così dicono – così mi dicono gli amici, mentre al loro bambino regalano magari un agnellino di zucchero che regge la sua stessa croce, e intanto sorvegliano il forno perché quello reale, macellato e fatto a pezzi, non bruci. Ah, così dice la Bibbia? Ma nella stessa pagina, nello stesso versetto, magari nella stessa riga, come si sgozza l’animale si sgozza l’uomo, non solo in qualità ma anche in quantità – che facciamo, procediamo dunque alla lettera (che poi, quel “non uccidere”, mah…)? “E che cazzo c’entra, scusa?”. “Non lo so, dimmi tu cosa c’entra”. “Rompi un po’ il cazzo. Fermo la cottura, scusa…”. “Ferma il sole, come sta scritto, coglione! Per quasi un giorno, se ci riesci…”. “Tutte cazzate, le tue, cazzate…”.

E però lo stesso trabocca, la Bibbia, di animali come bellissime metafore degli uomini. La balena, il pesce che è Cristo, il corvo di Elia, il mite e paziente asino che porta in salvo Maria e conduce Gesù a Gerusalemme, cavalli (quell’esagerato di Salomone a migliaia ne aveva) e cammelli, le vacche grasse e le vacche magre, l’astuto serpente, il pellicano di Davide, le volpi, i montoni, i pipistrelli, le pecore – per non dire dei poveri agnelli che versano sangue per cento e cento e cento pagine, e che nelle ultime di queste pagine, quelle dell’Apocalisse, sta lì, “un Agnello come immacolato”, e a quell’Agnello immacolato toccherà sciogliere il Sigillo, e così “a Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”: dà da pensare, credo. E all’agnello (il povero nostro sgozzato in questi giorni, come quello sul trono in gloria) – sempre torneremo. Nel “Cantico dei cantici” per dire d’amore e di sensuale desiderio, gli animali sono chiamati a far da paragone al quel desiderio, e così “i tuoi occhi sono colombe”, “i tuoi seni come due cerbiatti, gemelli di gazzella”, “le tue chiome come un gregge di capre”, “i tuoi denti come un gregge di pecore tosate”, “alla cavalla del cocchio del faraone io ti somiglio, amica mia”, “l’amato mio somiglia a una gazzella o ad un cerbiatto”, “mia amata, mia colomba, mio tutto”… E fu la colomba che tornò da Noè col ramoscello d’ulivo – ad annunciare che il mondo era salvo, alla colomba toccò l’annuncio: ci fossero già stati in giro quelli con le doppiette, Noè (che pure a diluvio finito, dopo aver salvato le bestie, si fa la sua bella mattanza, “prese ogni sorta di animali mondi e di uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare. Il Signore ne odorò la soave fragranza…”: cos’è, una rosticceria?) ancora navigava sperduto. Forse, senza la colomba, ora saremmo tutti pesci.

Da bambino, le suore – le meravigliose mie suore slave “Figlie della Misericordia” degli anni dell’asilo e delle scuole elementari – mi portavano a Messa. Io vedevo don Andrea sull’altare. Don Andrea aveva la stessa faccia da contadino di mio nonno, di mio padre – pensavo. Pensavo che a Dio forse piacevano facce strane e curiose. Alzava le braccia sopra la testa: “Ecco l’Agnello di Dio…”. Non sapevo del vangelo di Giovanni – però dietro l’altare, oltre il prete, c’era un grande quadro: Gesù in croce, un agnello che piange ai suoi piedi (io lo ricordo, l’ho immaginato?), vicino alla Madonna. C’era oro e turchese, su quel quadro. E morte. Quell’alzare infinite volte le braccia, quella frase infinite volte ripetuta – “ecco l’Agnello di Dio” – mi convinsero allora (sei e sette e otto anni), e per sempre mi hanno lasciato questa convinzione, che solo i malvagi possono assassinare l’Agnello di Dio “che toglie i peccati dal mondo”, e che bisogna bivaccare giorno e notte sotto l’albero della cattiveria per voler fare del male alla bestia che è tutt’una con Gesù. Mio nonno, amatissimo, invece l’agnello lo faceva al forno, una volta l’anno – a Pasqua. L’odore riempiva la cucina. Con le interiora della bestia faceva certi strani involtini avvolte in foglie d’erbe. “Non si può uccidere l’agnello”, dicevo. “Ah, ce lo teniamo perché è bello?”. Mi sembrava un’idea sensata. “L’agnello è di Dio”, dicevo ancora. “Questo è mio. Tutti mangiano l’agnello”, diceva mio nonno. “Pure don Andrea?”, chiedevo io. Mio nonno faceva un gesto – come a dire: greggi interi di agnelli! Magari pure con le patate. Io non ci credevo. “Ma è peccato!”. E credo ancora che sia orrendo peccato – e anzi, adesso più orrendo di allora mi appare. “Io non lo mangerò mai”, dicevo al nonno. “Ma di chi sei figlio, tu?”, domandava lui. E ancora: “Ma tu mi vuoi bene?”, e porgeva un boccone: “Prova, dài…”. “Sì, ti voglio bene, ma l’agnello non lo mangio. Io sono comunista come te, ma l’agnello non lo devono uccidere neanche i comunisti!”. Nonno sbuffava, addentava – e chiudeva la surreale, inutile conversazione.

Ho visto uccidere gli agnelli, in campagna. Ho udito l’urlo spaventato dei maiali. La zia saliva a prendere un piccione, ogni tanto, in alto sul pagliaio. Le galline che annaspavano mentre venivano strozzate. L’ultimo sguardo meravigliato del coniglio. Il vitellino che pensavo fosse mio – bevevo lo stesso latte che beveva lui: di sua madre, legata lì vicino – e invece fu venduto a un macellaio del paese, “la mangi una bella fettina?”, e vomitai, e non smisi più di farlo. C’era un cane, alla catena, a volte si chiamava Leone, a volte si chiamava Dick – sempre alla catena, quel cane. Un giorno cercò di mordermi. Ho avuto paura per anni – prima di capire che era giustificato, quel morso. Chi a una catena viene legato, ha il diritto di mordere – non è la mano che nutre, è solo la mano che possiede. In quella cucina dove ogni giorno ritrovavo tutte le persone che amavo, c’era un piccolo quadro raffigurante un cane che osservava una luce che calava dal cielo. Una preghiera stampata sopra: “La preghiera del cane”. Si è salvato, quel quadretto. E’ giunto fino a me. Dice così, quella preghiera: “O Signore di tutte le creature, fa che l’uomo, mio padrone, sia così fedele verso gli altri uomini, come io gli sono fedele… Dagli, o Signore, un sorriso facile e spontaneo, come facile e spontaneo è il mio scodinzolare… O Signore di tutte le creature, come io sono sempre veramente cane, fa che egli sempre sia veramente uomo…”. Ho conservato l’odio per catene, gabbie, acquario anche. L’agnello no, mai – ma ho mangiato il maiale, ho mangiato i polli, ho mangiato le fettine: creature che avevo visto vive, e poi pezzi di cadaveri nel piatto. Le ho digerite, quelle agonie. Ho conservato l’ultima espressione loro di spavento, che così dentro di me si è posata – fino a diventare mio, quello spavento: qualcosa di infetto di cui è faticosissimo liberarsi. Immagini e pensieri risaliti pian piano – imprigionandomi, migliorandomi. Ferita mai sanata. Peso sul petto, della stessa materia dell’insonnia. Succede sempre così (beh, sempre, magari sempre…) – vedi, capisci, scegli. “Signore di tutte le creature…” – tutte le creature. Lo stesso soffio. Io avevo visto. Ma ho capito molto tardi. E ancor più tardi ho scelto – per ingordigia mai del tutto sopita, per conformismo, per l’invincibile grumo di vigliaccheria tenuto al calduccio dentro di me. Tardi – non troppo, ma sempre tardi. Eppure, l’Agnello era lì. Sulla croce – inchiodato. E anche ai piedi della croce.

Bisogna essere un po’ folli – per trovare appena un pizzico del coraggio necessario. Come quello di chi si oppone alle gigantesche navi nipponiche che massacrano le bellissime balene. Quello di chi si spoglia per strada in odio alle pellicce – e ricordano che quel pelo morbido gronda sangue, che il loro legittimo proprietario è stato ammazzato e scuoiato, che non dovrebbe esistere il diritto di possedere ciò che a un altro essere vivente è costata la vita. Chi sfama le bestie affamate. Chi cura una rondine ferita. Chi va a disturbare, nell’alba e nel gelo, il rito tribale e crudele della caccia, “atto inumano e sanguinario”, dice la saggezza di Tolstoj, “suicidio morale” – e quale razza di norma è, quella che consente a qualcuno di distruggere la bellezza di un cervo o di un’anatra o di una volpe, bellezza che è anche mia, bellezza indisponibile? Perché poi, ogni atto necessario qualcuno lo ha già fatto prima di te – si tratta solo di ripeterlo. Io sono invece piuttosto vigliacco – sfamo un animale affamato, mi prendo cura di una bestia maltrattata, firmo petizioni, lascio un po’ di denaro, posso dire ogni tanto “non a questo prezzo”, certo avrei offerto rifugio e difesa al piccolo beagle latitante dalla sua prigionia, se sull’autobus si siede vicina una tizia in pelliccia (se hanno abbastanza cattivo gusto da portare una pelliccia, avranno anche abbastanza soldi da pagarsi un taxi, no?) mi alzo e nascondo il mio disgusto. Potrei vomitare, e pure motivare il vomito, ma non lo faccio. Potrei mettere le mani, potrei davvero, questo sì, addosso agli stronzi che abbiamo visto uccidere gli inermi cuccioli di foca: a colpi in testa, perché la preziosa pelliccia non vada persa. Potrei – ogni persona civile dovrebbe. Ho sghignazzato davanti alla regale coglionesca espressione del re spagnolo con lo schioppo in mano e un elefante ammazzato alle spalle. Ma nient’altro (poco altro). “L’uomo non sia indegno dell’Angelo la cui spada lo protegge…”: in realtà, lo sono. Ma con (vile) gratitudine penso a chi ancor più radicalmente si oppone. Mica bisogna sempre essere stoltamente ragionevoli – come se fossero, quei ragazzi sulle barche nell’oceano o nel freddo dei boschi o nudi e sanguinanti su un marciapiede, come “i giusti” dei versi borgesiani: “Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”. Forse.

L’Agnello poteva bastare – a chi crede. Però non basta. “Il cristianesimo avrebbe potuto insistere sulle sublimi leggende che mescolano l’animale all’uomo: il bue e l’asino che riscaldano col fiato il bambino Gesù; il leone che seppellisce devotamente il corpo degli anacoreti, o che serve da bestia da tiro o come cane da guardia a san Gerolamo; i corvi che nutrono i Padri del deserto, e il cane di san Rocco che provvede al padrone malato; il lupo, gli uccelli e i pesci di san Francesco, le bestie dei boschi che cercano protezione presso san Biagio, la preghiera sugli animali di san Basilio di Cesarea o il cervo crocifero il quale converte sant’Uberto (una delle più crudeli ironie del folclore religioso è che questo santo sia divenuto in tanto il patrono dei cacciatori). O ancora i santi d’Irlanda o delle Ebridi che riportano a riva e curano alcuni aironi feriti, proteggono i cervi ormai senza scampo, e muoiono fraternizzando con un cavallo bianco” (Marguerite Yourcenar, “Il tempo, grande scultore”, Einaudi). Avrebbe potuto, il cristianesimo. “O Dio, aiutaci ad amare tutte le cose viventi, i nostri piccoli fratelli a cui Tu hai dato questa terra come casa assieme a noi. Possa l’uomo rendersi conto che essi non vivono soltanto per lui, ma per se stessi e per Te e amano la dolcezza della vita quanto noi e Ti servono meglio di quanto faccia lui” – così pregava, san Basilio vescovo di Cesarea. Ma non sempre hanno pregato così, gli uomini di chiesa. Anzi. Più dello spirito, a volte condizionati da stomaco e tristi ragioni – banali cartesiani. Eppure…

Eppure, se Benedetto XVI parlava con i gatti, ci fu sul trono di Pietro un paranoico Gregorio IX che nel 1233 fece apposita bolla, “Vox in Rama”, per condannare al rogo streghe e gatti neri – essendo tale “la volontà di Dio”, si capisce, che figurarsi Dio… Fu Paolo VI a evocare la “muta sofferenza” degli animali – “la parte più piccola della Creazione Divina, ma noi un giorno li rivedremo nel mistero di Cristo”, e Giovanni Paolo II a spiegare: “Non solo l’uomo, ma anche gli animali hanno un soffio divino”. Certo ben altro cuore di quello di cui fece mostra Pio XII, quando si rivolse ai lavoratori del mattatoio di Roma: “I gemiti delle bestie abbattute e uccise per giusto motivo non dovrebbero destare una tristezza maggiore del ragionevole, mentre non ne procurano i colpi del maglio su metalli roventi, il marcire dei semi sottoterra, il gemere dei rami al taglio della potatura, il cedere delle spighe all’azione dei mietitori, il frumento che viene stritolato nella macina da molino…”. E così non si intristiva più del ragionevole (triste ragione, ecco), quel Santo Padre…

Non che la sensibilità che mancava altrove fiorisse a sinistra. Piuttosto l’Arcicaccia, a sinistra fioriva – della bestia, non si cura di più il vispo proletario dell’arido borghese. Fu Pietro Ingrao, sempre un po’ visionario e laterale, a tirare fuori per primo (e tra infiniti sghignazzi dei compagni dirigenti) l’idea suggestiva del “vivente non umano”. E Norberto Bobbio, nel suo manuale “Destra e sinistra” (Donzelli), sapientemente avvertiva: “E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare, il vegetarianismo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del genere umano, un’estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono uguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano”. Dove la sinistra arrivò alla fine del secolo scorso, secoli prima c’erano già arrivati tipi come Leonardo da Vinci, “verrà il tempo in cui l’uomo non dovrà più uccidere per mangiare, ed anche l’uccisione di un solo animale sarà considerato un grave delitto”, o Montaigne, “abbiamo difficoltà a capire gli animali, ma, invece di prendere atto di questo limite, abbiamo l’impudenza di crederci superiori a loro” – precursori mica male. Fu sugli animali, il primo scontro col mio partito – il Partito, il Pci. Partito e animali e feste dell’Unità – dove non solo si registrava il trionfo di salsicce e porchette e braciole alla griglia, ma anche il proliferare di giochi cretini e crudeli. A vent’anni, ero il segretario della mia sezione – sezione “A. Gramsci”. Alla festa dell’Unità facevano da sempre un gioco orrendo, un porcellino d’India messo in mezzo a un circolo di militanti/cittadini/scommettitori. Vinceva il possessore del biglietto col numero corrispondente alla scatola dove il porcellino, terrorizzato, correva a nascondersi – a gloria e sottoscrizione del Partito dei lavoratori e della stampa democratica. Ancora peggiore il gioco che vidi a una festa dell’Unità di un paese vicino: gli spettatori/militanti/cittadini lanciavano piccoli cerchi di plastica su delle oche chiuse in un recinto, chi riusciva a infilare il cerchio nel collo di una di quelle bestie spaventate vinceva un prosciutto o un salame o una cena presso la trattoria del compagno XY – sempre a gloria e a sottoscrizione ecc. ecc. (Però intanto mangiavo il mio panino con la salsiccia). Su un giornale locapesci
le scrissi un articolo – uno dei primi. Il titolo, più o meno, era questo: “Si può contribuire alla stampa democratica senza seviziare il porcellino”. Tra citazioni e facile commozione e qualche ragione, argomentavo sul fatto che noi comunisti, se volevamo costruire un mondo migliore, lo dovevamo fare pure per i porcellini e le oche, oltre che per i lavoratori. Fui convocato presso la locale federazione (Tivoli). Ricordo il grugno di un consigliere provinciale – l’autorevolezza dell’interlocutore doveve essere stata scelta in base alla scarsa autorevolezza del reprobo. “Ir-re-spon-sa-bi-le!”, mi urlò quello. “Caro compagno D. M., se credi che il Partito sia luogo per questi sentimentalismi volgari…”. Lo mandai a fare in culo – con rispettoso garbo, però vaffanculo, compagno dirigente! La cosa finì lì. Ma uno o due anni dopo, porcellini e oche scomparvero per sempre dalle feste dell’Unità (senza alcun merito mio, si capisce: era solo l’ingraiano “vivente non umano” che cominciava a farsi strada). Le salsicce restarono. Sono ancora lì. Sulla brace,

Non c’è convenienza. Non c’è ragionevolezza (se non quella del cuore). A volte è difficile spiegare – a volte gli altri non sanno capire. E’ una sorta di abbandono (come quello del cuore). Un curioso innamoramento – capace di travolgere persino il più banale innamoramento per un essere umano. No, qui c’è un errore… E può sempre scappare fuori la caricatura del cretino cartesiano che si mette a frignare sul privilegio dato all’animale rispetto all’uomo. Non è questo (seppure, certe volte, perché no?) – è solo che, banalmente, spesso il sentimento per un animale è destinato a durare più di quello per un amore. Comincia un giorno, persino per caso comincia, poi non finisce più. Ormai da diciassette anni il gatto B. e la gatta C. mi educano, mi insegnano le altezze che puoi raggiungere abbassandoti, mi mostrano di quante forme è fatta la vita. Hanno sguardi che non decifro – e che pure sono tra i più profondi e necessari avuti in dono. Ho artigli sugli occhi e sul cuore – e mi sento sicuro, quando sento quegli artigli che potrebbero ferirmi. Mi proteggono. Mi hanno reso diverso e saggio. Li vedo ora invecchiare – certi gesti costano più fatica, e il saltare e scendere è più lento, e la corsa di una volta è un calmo arrivare, e le allegre devastazioni di tanti anni sono ormai un placido ondeggiare tra possedimenti certi di cose e casa. Un giorno, ecco, a volte ci penso… Un giorno, se la sorte non deciderà diversamente… Però non ancora – Cristo, o chi sei, non ancora… Non sono pronto – non sarò pronto mai, credo. E chi lo è, poi?

E’ tutto molto limpido, vicino agli animali. “La bellezza fisica noi la percepiamo innanzi tutto dagli animali. Se non ci fossero gli animali, nessuno più sarebbe bello”, così dice Elias Canetti – belli sono i cavalli di Achille che piangono Patroclo, forse più belli di Achille e Patroclo stessi. Certi odiano gli animali per invidia – a raffronto, devono sentirsi infinitamente brutti e infinitamente limitati e infinitamente sciocchi. Devono patire parecchio. Lo spavento per ciò che è diverso – e quasi sempre, ciò che è diverso è migliore di loro. Si è fatta la mano sulla bestia, la crudeltà, per arrivare all’uomo. Per vedere fin dove si secca il cuore. Racconta William S. Burroughs che “una iniziazione nazista alle gerarchie superiori delle SS consisteva nel cavare un occhio a un gattino, dopo averlo nutrito e coccolato per un mese. Tale esercizio era inteso a cancellare ogni traccia di deleteria pietà…”. Farsi vile sulla bestia – sempre è accaduto, sempre accade. La stessa mano che ricade poi sull’uomo. Lo fa, ma con vergogna, senza vanto, nel buio: la percezione di un conto che arriverà da saldare. “Che hai fatto alle mie creature?”. Nei millenni tutto è rimasto immutato – anche se ora i macelli sono fuori dal centro della città, lontani dalla vista, dall’udito: perché puoi adorare il pezzo di carne morta che con eleganza ti poggiano sul piatto, ma quella vista del terrore, quel sangue che scorre, quelle urla che somigliano a quelle dello spavento della nostra razza: chissà l’appetito dove andrebbe a finire. Ma uguali sono le descrizioni che si provano in Plutarco (“Del mangiar carne”, Adelphi) e quelle nell’inchiesta sui macelli americani di oggi di Jonathan Safran Foer (“Se niente importa”, Guanda). La lama è più affilata, il gancio più solido, le pareti più insonorizzate – la mano è la stessa. Basta guardare, prima di addentare il cosciotto nel piatto, il video clandestino realizzato da Animal Equality – la crudeltà esercitata ben oltre la semplice orrenda necessità dell’ammazzamento (volete mettere la meravigliosa perfetta cartesiana eugenetica da zoo di Copenaghen?). Piccole bestie (strappate dalle madri, nate appena poche settimane fa: c’era ancora la pioggia, scannate al primo sole) che muoiono in dolore – e guardare quelle facce, quel terrore, quello sgomento. Quello precede ciò che c’è nel piatto – e quello scivolerà, tra gola e viscere, in noi. Digerire agonie – sempre di questo si tratta. “Io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto… Come poté la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì l’olfatto a sopportarne il fetore?” (Plutarco). La buona sorte, invocata dal Buddha per tutti gli essere viventi, a quelle creature non è concessa.

Mica un’idea così da squinternati, da estremisti, da pazzi animalisti – quella della crudeltà dell’uomo che esercita la mano sulla bestia. Perché tale e quale si ritrova nel pensiero di molti tra quelli che hanno onorato il mondo – e non disonorato, come molti altri della razza umana, “il vanto del creato”, hanno fatto. Come Erasmo da Rotterdam, caro a Berlusconi già da prima di Dudù: “E a forza di sterminare animali, s’era capito che anche sopprimere l’uomo non richiedeva un grande sforzo”. Come Lev Tolstoj: “Dall’uccidere gli animali all’uccidere l’uomo il passo è piccolo”. Persino Indira Gandhi: “E’ tutto collegato. Quello che accade ora agli animali, succederà in seguito all’uomo”. Isaac Singer: “Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno”. Si trovano ovunque, queste citazioni che forse un giorno sembreranno tra le più onorevoli del genere umano. Ovidio: “La crudeltà verso gli animali è il tirocinio della crudeltà verso gli uomini”. Montaigne: “Le nature sanguinarie nei riguardi degli animali rivelano una naturale inclinazione alla crudeltà”. Pitagora: “Coloro che uccidono gli animali e ne mangiano le carni saranno più inclini dei vegetariani a massacrare i propri simili”. Leonardo: “Viviamo grazie alla morte di altri”. Albert Einstein: “Vivisezione. Nessuno scopo è così alto da giustificare metodi così indegni”. E così, pian piano, ciò che all’inizio non solo non era una priorità, ma nemmeno pensiero, nemmeno un’ombra tra pranzo e cena, tra vita e morte, si fa strada – occupa il cuore, la vista, la mente. Ti consegna alla fatica dell’ipersensibilità estrema – abbiamo la lacrima facile, noi animalisti. Come tollerare, per esempio, le orrende insegne di bisteccherie o macellerie dove sopra sono disegnate mucche sorridenti, il fiore in bocca, i vitellini al fianco? Dov’è, dov’è Ceronetti col suo salvifico bastone? E chissà se toccherà un giorno provare a noi, quel terrore senza riparo – “come la tortora così io griderò, e come la colomba così io gemerò”, e sempre gemiti e urli giungono – “come se una giovenca celeste si fosse svegliata in una costellazione lontana e avesse iniziato un lamento che non sarebbe cessato finché tutta la vita dell’universo non fosse redenta” (Isaac Singer).

C’è traccia da sempre di animali, nella storia degli uomini. Nelle caverne dei primitivi, sono disegnati. Sulle tombe antiche. Sulle miniature delle Bibbie. Nei mosaici. Orfeo che incanta gli animali. Pesci. Tartarughe. Leoni. Cavalli. Cani. Gatti. Scimmie. E tutti gli altri che abbiamo inventato, sognato, plasmato – come gli altri cancellati, annientati, devastati: l’unicorno e il caradrio biblico (con lo sterco cura la nostra cecità), la fenice, il minotauro, il cervo celeste, il cavallo di mare. Capaci a volte di sostenere l’intero universo, “e così sotto la rupe creò un toro con quattromila occhi, orecchie, nasi, bocche, lingue e piedi. Ma il toro non aveva sostegno, e così sotto il toro creò un pesce chiamato Bahamut, e sotto il pesce mise acqua, e sotto l’acqua mise oscurità, e la scienza umana non vede oltre quel punto”, raccontò Borges di cento e cento esseri immaginari – e lui immaginò che forse una formica potesse essere l’architrave dell’intero progetto di Dio, e nel suo gatto che appena intravedeva nel suo buio perenne, “un archetipo eterno”. Tutte le bestie immaginate nel “Fisiologo”. Non c’è un passo dell’uomo, senza che vicino a lui non ci fosse il passo di un animale – eterno, rispetto al suo mortale: perché l’animale non sa di dover morire, e se non sai di dover morire, allora sei eterno. E la sua divina pazienza – che accetta il massacro e le botte e la crudeltà: come per meglio turbare un giorno la coscienza di chi li ha immolati.

E’ salito sulle spalle di Papa Francesco, l’agnello, qualche mese fa. C’è una foto che mi inquieta, bisogna sempre avere qualcosa che inquieta a portata di mano, dietro la scrivania – ritagliata da un giornale. Ci sono tre agnelli sulla soglia di una stanza. Fissano con meraviglia lo spettacolo davanti a loro: tre altri agnelli agonizzanti appesi a dei ganci, scuoiati – crocifissi, a ben guardare. Il pavimento è un lago di sangue. La zampette delle bestie vive affondano nel sangue delle bestie morte. E’ ciò che dovremmo vedere noi – vedere come le vittime, prima di portare il boccone sulle labbra. Così da rispondere a Plutarco: “Come poté la vista…”. Gli agnelli vedono la loro sorte – senza riparo, senza speranza. E’ la lama. E’ il gancio. E’ l’accetta. Toccherà alla loro gola, alla loro pelle, al loro petto. A loro non succederà, nei nostri moderni e primitivi macelli, di incontrare san Francesco – come si vede in quell’affresco, nella mirabile cappella Bardi: quando il santo compra con il suo mantello due agnelli che il mercante portava legati a testa in giù per andare a venderli e macellarli. “Perché tormenti i miei fratelli agnelli?” – e porge il suo mantello azzurro, Francesco, per salvare le due piccole creature. Magari potrebbe ancora succedere – sarebbe bello. Le vetrine delle macellerie dicono che non è successo – è brutto.

Semplice, no? Eppure l’occhio cade sulle mie scarpe. Sono di pelle – la pelle di chi, io non so. Ma certo non la mia – non è la mia pelle. A qualcuno è stata tolta, quella pelle. Chissà se qualche cucciolo ha dormito, al riparo dell’odore di quella pelle. Chissà se qualche mano l’ha accarezzata. Chissà dove e quando è successo – che il creato si sia mutato in inferno per i più deboli tra le creature. E’ pelle, quella che ho ai miei piedi. E’ stata pulita dal sangue – non tolleriamo di sapere che c’era sangue su quel blu così primaverile, su quel marrone così rassicurante, su quel vezzoso bordeaux. C’era carne. Non la mia. Non è la mia pelle – io ho visto come sono spaventati gli animali che vanno a morire: lo sanno, piangono, si cagano addosso, tentano una piccola inutile fuga, implorano, leccano disperati la mano del carnefice. Cercano pietà – che non ci sarà. Lo so. Se vedi anche una sola volta quelle immagini, non tolleri più. Non puoi tollerare più. Vedi. Capisci. Scegli. (Così raccontava una bella persona, una partigiana, dopo che i nazisti avevano impiccato i suoi compagni di liceo, lungo il viale d’ingresso al paese, per spaventare tutti gli altri. Lei decise, proprio di fronte a quel crimine, di farsi partigiana. Vedi, capisci, scegli. E se a qualcuno il paragone pare azzardato, c’è sempre Singer da invocare: “Quanto a lungo, Dio, guarderai a questo tuo inferno e resterai in silenzio? Quale bisogno hai Tu di questo oceano di sangue e di carne, il cui fetore invade ormai tutto l’Universo?”). Però ho tollerato. Queste cazzo di scarpe. E c’era della pelle (di chi?), sul bavero del cappotto. Le cinte, poca pelle, ma un po’ sempre. E nel panino c’era del tonno – come se non avessi mai visto le mattanze violente di quelle tonnare, il sangue che si allarga, si allarga, si allarga, supera il corpo del pesce morente, supera quello degli uomini che ammazzano, supera quello della barca: cerchi di sangue invece che di acqua, e comincia a girare per il mondo, il sangue. C’era quella bestia, nel mio panino. Pesce a cena. E il sangue mica si può cancellare del tutto, mai, mai, mai – si vede pure in tutti quei cazzo di film gialli. C’è del sangue resta addosso, nello stomaco, chissà se pure nelle mani. (Spruzzassero il famoso luminol nel nostro esofago, vorrei vedere). Forse (niente forse) sono anch’io solo uno stronzo – come tanti, come quasi tutti. Non c’è urlo – dicevo: era muta, la bestia. Ma l’urlo c’era – io sordo per comodità. Stronzo. Ipocrita. “Mi vergogno molto, io – umano” – infinitamente cara, indispensabile Wislawa Szymborska.

L’Agnello di Dio è tornato a morire. Ancora e ancora e ancora. Altri agnelli pure, a morire. Settecentomila volte. Ottocentomila volte – ottocentomila gole squarciate, ottocentomila pianti disperati, ottocentomila sguardi di terrore. Lui risorgerà – ci siamo, questione di ore, ormai. “Ecco l’Agnello di Dio…”. Il mattatoio del Calvario offre possibilità che il mattatoio dei giorni nostri – dei piccoli e poveri agnelli nelle mani degli umani – nega. Niente scampo. Sazi. Eppure da qualche parte (ancora lo Spazio Esterno, forse meglio: Spazio Estremo) quei pianti saranno conservati. Forse consolati. Eppure sotto i nostri piedi tutto quel sangue scorre e scorre e scorre.

Immagine: Agnello sacrificale da un quadro di Francisco de Zurbaràn

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L’evoluzione dell’addestramento. Cosa è cambiato di Manuel Codo

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L’addestramento del cane nasce dalla sua primissima addomesticazione e ovviamente si è evoluto nei secoli seguendo di pari passo l’evoluzione dell’uomo, della società e dell’utilizzo che nei vari periodi abbiamo fatto di questi animali.

Da sempre compagno ”utile”, nel senso tecnico del significato in quanto assistente nel nostro lavoro (dal cane da gregge al cane da guardia, dal cane da caccia al cane da soccorso), l’utilizzo del cane nella vita dell’uomo si è via via trasformato arrivando ad occupare anche il ruolo del ”semplice” animale da compagnia.

La detenzione di un cane si è trasformata via via dalla necessita’ di avere un compagno per coadiuvare il lavoro dell’uomo (non dimentichiamoci delle origini di Rin Tin Tin o Rex), alla volontà di avere un “nuovo” membro della famiglia, un compagno di condivisione delle proprie giornate, una forma di rapporto di amicizia (il più moderno “Marley”).

Sulla base di questo dato non possiamo pensare che l’arte dell’addestramento non si sia evoluta nei secoli ma anzi, come ha scritto nel suo articolo Valeria Rossi in questo stesso Magazine, l’addestramento si è evoluto sia sul campo delle conoscenze vere e proprie delle metodologie, della psicologia canina, della medicina veterinaria, dell’apprendimento cognitivo, del rinforzo positivo, ma anche e soprattutto dal lato della relazione, della costruzione di un rapporto corretto, della comunicazione fra conduttore-cane e fra addestratore-conduttore. codo3_n

Cosa vuol dire evoluzione?

Beh, per ciò che mi riguarda evoluzione non è aver scoperto qualcosa di nuovo ma aver approfondito e dato spiegazioni a riguardo di qualcosa che già esisteva, perché le grandi vere scoperte della cinofilia addestrativa sono vecchie come il cucco, ma è indispensabile aver analizzato, classificato e aver fatto chiarezza su ciò che i ”vecchi nonni” facevano coi loro cani per addestrarli ad essere i loro fidati assistenti; loro lo facevano per doti naturali, per necessità, ma lo facevano costantemente e con uno scopo ben preciso.

Un esempio fra tutti; le famigerate “puppy class” così in voga oggi e, a mio parere, utilissime per la socializzazione corretta dei cuccioli, in verità gli addestratori di lungo corso le facevano regolarmente ogni giorno al campo senza dar loro alcun nome… era semplicemente una cosa “normale” mettere i cuccioli insieme a degli adulti equilibrati (oggi definiti “moderatori”).

Oggi sappiamo cosa c’è dietro a quei meccanismi, possiamo ritenere che quegli stessi meccanismi fossero più o meno ”duri” nel rispetto del cane, della sua morale o del suo benessere; oggi abbiamo preso l’unico capitolo del libro di ”come si addestra il cane” analizzandolo parola per parola e riscrivendo sei sotto-capitoli: anche mio nonno diceva ”bravo” ai suoi cinque cani quando facevano bene il loro lavoro, mentre magari oggi c’è chi utilizza strumenti come i bocconcini o il clicker… se gli avessi parlato di “rinforzo” mi avrebbe guardato con gli occhi sgranati, figuriamoci se avessi parlato di comportamenti che se appaganti verranno riproposti.

Lui mi avrebbe detto “se è stato bravo, gli dici che è stato bravo”!

Perché sempre mio nonno, giusto o sbagliato che fosse, se il cane scappava di casa gli mollava un ceffone sulla testa o lo legava alla catena, mentre oggi c’è chi dice ”no”, chi utilizza strumenti più o meno coercitivi, strumenti con elettroniche sofisticate, chi decide di ignorare quei comportamenti… insomma oggi sappiamo che esistono le punizioni.

Ecco, per i nostri nonni, per chi utilizzava il cane per il proprio lavoro, era tutto normale; per noi oggi si parla di CONDIZIONAMENTO ossia, in parole povere, il rinforzo è tutto ciò che fa sì che un comportamento venga ripetuto, la punizione è tutto ciò che fa sì che un comportamento non venga ripetuto e vada in estinzione.

Lo so, lo so, lo so… è tutto molto generico e buttato li, ma questo articolo non è volutamente tecnico, non vogliamo aprire il tafferuglio del condizionamento classico o operante, del rinforzo positivo o negativo, della punizione positiva o negativa, del collare a scorrimento o della pettorina, di quelli che vengono definite metodologie gentili e chi di conseguenza viene additato come coercitivo… vuole essere solo uno spaccato della storia. codo2 30252_n

La cosa su cui vorrei farvi riflettere è solo una ed è questa: se ci fosse una vera, grande e unica scoperta sull’addestramento del cane esisterebbe una sola scuola di pensiero, una sola scuola di formazione per istruttori, una sola trasmissione televisiva, un solo autore di libri ecc.

In verità ci troviamo davanti a filosofie differenti: a chi opera da sempre con metodologie più classiche (e sarà un caso ma questo tipo di approccio è più tipico di chi addestra cani per servizi coi quali l’uomo è impegnato da più tempo, come cani da difesa, da guardia, da pubblica sicurezza ecc.) a chi invece ha approfondito ed evoluto ciò che c’era per dare un valore aggiunto al proprio cane con il quale magari oggi gareggia a livello sportivo (di tutti i tipi) e necessita di maggiore ”spinta”, precisione e velocità (mi vengono in mente le unità di agility o di obedience tanto per fare un esempio), a chi invece si trova a lavorare con una tipologia di cane, quello da famiglia, che possiede che ci piaccia o no un conduttore con caratteristiche diverse dai conduttori precedenti e che necessita quindi di un approccio differente.

Ecco la spiegazione della nascita e dello sviluppo delle numerose scuole di ”educazione”, di filosofie alternative o new age, di approcci che spesso sono diametralmente opposti a chi fino ad ora vedeva solo nel cane la figura da addestrare, mentre oggi sempre più spesso si cerca solo di spiegare al proprietario come agevolare il cane nella sua giornata per farlo sentire meglio e in pace con se stesso.

 

Ma quindi qual’è la verità? In fin dei conti qual’è la novità di questa cinofilia targata 2015?

A mio avviso l’unica vera, grande e valida innovazione è aver iniziato a considerare il proprietario come elemento fondamentale per la struttura del suo rapporto col suo cane; nell’aver iniziato a prendere in considerazione che esiste una parte emozionale di entrambi i soggetti, bipede e quadrupede, di aver necessariamente imparato a relazionarsi con le persone e non solo con i cani, di aver necessariamente dovuto imparare a costruire percorsi personalizzati per ogni singolo soggetto, per ogni singola unità cinofila… o almeno questo è ciò che faccio oggi ogni singolo giorno con i miei cani o con i cani dei miei clienti ed è ciò che mi ha dato i risultati migliori.

Aprite la mente… non rinneghiamo il passato, non stravolgiamo il futuro con innovazioni che cancellano la tradizione che ci ha portato qui fino ad ora… EVOLVIAMO!

 

 

Manuel Codo svolge la sua attività nel suo centro cinifilo “Dog Planet” e opera da anni sul territorio nazionale e internazionale.

 

Fotografie di Stefano Castellari

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Aiuto! Da chi vado? Di chi mi fido?

“Siamo Educatori (maiuscolo), NON addestratori! (minuscolo)” : lo troverete scritto e ribadito su molti siti di centri cinofili, quasi ad intendere (anzi, senza “quasi”): “gli addestratori sono i cattivoni che picchiano i cani, noi siamo quelli gentili che li amano e li rispettano”.
Difficile trovare l’altro lato della medaglia sui siti, ma facilissimo ascoltarla qualora un povero tapino si avvicini ad un centro di addestramento e chieda timidamente: “Ma voi siete educatori o addestratori?”Diogenes-statue-Sinop-enhanced
A quel punto il malcapitato si sentirà sicuramente rifilare un pippone galattico sul fatto che gli educatori (minuscoli) siano degli incapaci (o capaci solo di avere a che fare con cuccioli e minus habens – non è ben chiaro se canini o umani), mentre l’unica figura accettabile in campo cinofilo è quella dell’Addestratore (maiuscolo). Voi direte: ma come puoi capire che sono maiuscoli o minuscoli, se stanno parlando e non scrivendo?
Credetemi, si capisce. Si capisce benissimo dal tono di voce.
Ancora al di sopra di tutti si (auto) colloca l’ISTRUTTORE (questo si sente proprio tutto maiuscolo), che nessuno ha mai capito chi caspita istruisca a far cosa: i cani? Gli umani? Gli umani che educanaddestrano i cani? I cani che educaddestrano gli umani (questi molto più diffusi dei primi)?

Non è noto, se non forse agli istruttori stessi.
Ma intanto anche la figura dell’istruttore è stata minimizzata da quella del RIEDUCATORE (tutto maiuscolo e pure grassetto): colui che dall’alto della sua esperienza & sapienza ti rigira il cane come un calzino e da “belva feroce che se solo ti avvicinavi ti staccava le braccine” (o che “se solo si avvicinava un altro cane, volavano le orecchie”) te lo trasforma in un pacioso peluche amante del mondo intero.

Dovrebbe balzare agli occhi di chiunque (ma non balza) che queste definizioni sono state costruite ad hoc per rendere sempre più appetibili le diverse figure agli occhi dei clienti.
Per esempio, è chiaro che chiunque abbia un problemino con il suo cane (dal tirare al guinzaglio al saltare addosso ai visitatori) sarà tentato di rivolgersi al RIEDUCATORE: perché l’educatore normale non basta (d’altro canto, se fossero andati dall’educatore normale – o se fossero stati capaci loro di educarlo – probabilmente il cane non sarebbe mai diventato il tamarro che oggi si ritrovano per casa).
Purtroppo, a volte (molte volte, diciamolo) il sedicente rieducatore è davvero un normalissimo educatore, che magari ha pagato qualche migliaio di euro in più per seguire ulteriori corsi dopo quello “base”, ma che un cane davvero “da rieducare” non l’ha mai visto al mondo. E se gli arriva qualcosa di più tosto del cafoncello che tira al guinzaglio o che fa il furbo con gli altri cani, se la fa sotto e manda i proprietari dal RIABILITATORE (maiuscolo, grassetto e sottolineato), figura questa quasi leggendaria di cui si conoscono rarissimi esemplari, peraltro ormai quasi completamente scalzati dal VETERINARIO COMPORTAMENTALISTA (maiuscolo, grassetto, sottolineato e corsivo: e per fortuna sono finite le figure cinofile, perché altrimenti sarei rimasta sprovvista di elementi tipografici che potessero sottolinearne l’importanza). Molossus_bulldog

Ma in mezzo a tutto questo bailamme, cosa sanno effettivamente fare i vari personaggi?

Proviamo ad esaminare i loro percorsi di formazione, uno per uno (e scusate se li riduco tutti a dimensioni tipografiche normali: è solo per praticità):

1 – l’educatore è, quasi sempre, un giovane di belle speranze che ha deciso di fare un corso per iniziare a lavorare con i cani.
In cambio di somme che – a seconda delle sigle, dei docenti, dell’onestà o dell’avidità degli organizzatori – vanno dai mille ai 3-4000 euro ottiene una base teorica quasi sempre valida (sembrerebbe anche difficile darne una non valida, visto che si tratta per la maggior parte di una semplice raccolta di studi altrui che riguardano i cani: eppure qualcuno riesce a sparare supercazzole anche nella parte teorica) e – sempre a seconda del corso – un’infarinatura pratica che può andare da un buon ABC dell’educazione/addestramento al nulla assoluto (ci sono corsi nei quali i cani non appaiono MAI. Li vedono solo in fotografia).

Un tempo i giovani che uscivano dalla scuola col loro diplomino da “educatore” venivano caldamente consigliati di occuparsi solo di cuccioli o di cani adulti molto “facili”, senza particolari problemi.
Giustissimo: un educatore – specie se alle prime armi – non è assolutamente in grado di affrontare qualcosa di più complesso. Eppure, negli ultimi tempi, si vedono educatori alle prese con casi di aggressività, cani anarchici ed ingestibili, cani fobici e quant’altro di veramente “difficile” si possa immaginare. La sola idea di “perdere il cliente” per mandarlo da qualcuno più qualificato fa venire i vermi agli educatori, che di clienti (mediamente) non è che ne abbiano proprio un’overdose: ma per forza. Ogni mese si tengono, in tutta Italia, almeno una decina di corsi, con almeno 15-20 iscritti (e mi sto tenendo bassa): il che significa che il nostro Paese sforna 150-200 nuovi educatori al mese. Duemila e rotti all’anno.

E se è vero che in Italia ci sono circa sette milioni di cani, è anche vero che meno del due per cento dei proprietari si rivolge a una scuola cinofila. Fanno circa 140.000 cani, che sembrerebbero tanti… ma se li dividiamo per i 150.000 educatori sfornati negli ultimi dieci anni fanno 0,9 cani per ognuno di essi.
 È evidente che saremmo ormai tutti sotto i ponti, se non fosse per il fatto che moltissimi “diplomati educatori” non si sono mai sognati di aprire un campo (e in moltissimi casi hanno fatto una scelta intelligente): ma la concorrenza resta spietata, siamo ormai tutti lì col coltello fra i denti. Figuriamoci se, una volta accalappiato un cliente, ci sogniamo di dirgli “non me la sento di occuparmi di questo caso, vada da Tizio o da Caio”.
Si prova lo stesso. Si “fa esperienza” (cosa utilissima, anzi imprescindibile), però sulla pelle dei cani e a volte anche su quella dei proprietari.

2 – l’addestratore può appartenere a svariate categorie: c’è quello per millemila anni si è smazzato sul campo suo e magari anche sui campi di gara, che si è fatto (nel bene e nel male) le sue esperienze, che si è fatto (nel bene e nel male) gli affaracci suoi e che oggi resta decisamente spiazzato sentendosi insultare e accusare di essere – tout court – un “maltrattatore”, indipendentemente dal suo modus operandi ma solo per via della sua qualifica.
Alcuni di essi sono davvero dei maltrattatori. Altri sono gentilissimi e rispettosissimi dei cani.
Entrambi, però, sono sempre stati convinti che “addestratore” fosse sinonimo di “tizio che lavora con i cani”. Gli sfuggivano concetti come quello di “strumentalizzazione del cane”, “lucro sulla pelle dei cani” e quant’altro (che poi non si capisce come mai l’addestratore lucri e l’educatore no, visto che entrambi si fanno pagare).
Poi ci sono gli addestratori usciti dai corsi ENCI: perché l’ENCI, unico Ente cinofilo italiano incaricato dal Ministero dell’Agricoltura di occuparsi di cani, si è accorto con almeno dieci anni di ritardo che la formazione di nuove figure professionali poteva essere un business. Allora ci si è fiondato sopra, ma data la sua impostazione cinotecnica li ha chiamati “corsi per addestratori” anche se sono praticamente identici ai corsi per educatori che nel frattempo sono stati messi sul campo da una miriade di sigle, associazioni, gruppi, enti e chi più ne ha più ne metta. Insomma, da tutti quelli che il business della formazione – o presunta tale – l’hanno scoperto per primi.
Ora che sono passati altri dieci anni corre voce che l’ENCI intenda rimodellare il tutto e che chiamerà i suoi corsi “corsi per educatori”.
Siamo alle comiche… purtroppo non finali, temo. Comunque: l’addestratore uscito fresco fresco dal corso ENCI ne sa esattamente tanto come l’educatore. L’addestratore che fa questo lavoro da quarant’anni (una a caso: la sottoscritta), o quello che si è formato girando l’Italia e l’Europa e magari il mondo per acquisire vere competenze imparando da veri professionisti, ne sa immensamente di più ma non ha modo di dimostrarlo. L’unica cosa che può sbandierare sono i titoli acquisiti in gara, ammesso che ne abbia fatte: però non a tutti interessa l’agonismo, quindi ci sono addestratori bravissimi che non sono mai scesi su un campo di gara e ci sono incapaci totali che le gare le hanno pure vinte, perché hanno comprato cani “già fatti” da altri e si sono limitati a condurli.

3 – l’istruttore… io non lo so, chi sia e cosa faccia. Un tempo pensavo che fosse un tizio che insegnava ad altri tizi, insomma un formatore di educatori/addestratori… ma alcuni mi dicono che no, non è così: è uno che ne sa di più degli educatori e degli addestratori, ma che insegna ai cani e non agli umani.
Di fronte a questa figura – peraltro sempre e solo autoreferenziale – alzo bandiera bianca. Ripeto: non lo so definire, anche perché tra dieci persone che vantano la qualifica di “istruttore” non ce ne sono due che si qualifichino nello stesso modo.

4 – il rieducatore, l’ho già detto sopra, è un educatore che ha pagato altri mille o duemila o millemila euro per fare un corso “di livello superiore”. Ne ho sentiti alcuni lamentare l’assoluta carenza di informazioni realmente più approfondite di quelle che avevano ricevuto al primo corso, mentre altri ritengono di poter affrontare qualsiasi tipo di problema. Se chiedi loro con quanti cani abbiano lavorato fino ad oggi, spesso le risposte sono imbarazzanti (ammesso che una risposta arrivi).

5 – il riabilitatore dovrebbe essere colui che “recupera” i casi davvero gravi, insomma quelli sull’orlo dell’eutanasia o quasi. La sua formazione è solitamente ignota: è un riabilitatore “perché sì”. Magari perché davvero ha sbattuto il muso per anni contro cani difficili, ottenendo molti successi: magari perché qualche sigla cinofila gli ha dato il patentino di turno dopo avergli fatto l’ennesimo corso.
Come si fa a distinguere? Bella domanda.

6 – il veterinario comportamentalista è un veterinario, cosa che gli dà una marcia in più rispetto a tutte le figure precedenti: lui, almeno, ha una laurea! Peccato che la laurea ce l’abbia in medicina generale e non in psicologia, etologia, psichiatria e quant’altro servirebbe per occuparsi di problemi comportamentali.
Per potersi occupare di problemi comportamentali, però, ha fatto un master: non male, se non fosse per il fatto che si parla sempre e solo di studi teorici, per di più fortemente orientati verso l’approccio farmacologico.
Al di là della terapia farmacologica, la stragrande maggioranza dei comportamentalisti vi darà gli stessi suggerimenti del semplice educatore.
Anche perché l’approccio teorico quello è… e non è colpa di nessuno se di effettivi studi sulla psicologia del cane in pratica non ce ne sono, se le metodiche che si studiano sono prese pari pari da studi che riguardano la psicologia umana e se tutto ciò che si può proporre è la vecchia minestra fatta di condizionamento classico, condizionamento operante e quelle tre o quattro tecniche di recupero (abituazione, controcondizionamento, desensibilizzazione eccetera) che sulla carta risolvono il cento per cento dei casi, ma nella pratica… non si sa. E’ proprio per la povertà oggettiva di metodiche studiate sul cane e per il cane, oltre che per il fatto che il veterinario non vede cani “sul campo” ma solo cani sui libri, che tanto spesso lui si lancia a testa bassa sul farmaco: solo che anche i farmaci psicotropi sono tutti per uso umano, solo che non ci sono indicazioni reali sugli effetti a lungo termine, solo che utilizzarli “è una sconfitta” per le ragioni che ha già spiegato il dottor Satanassi in questo articolo proprio qui su Ent, ragion per cui ad esso vi rimando senza disquisire oltre su questo tema.

Come si può vedere, il panorama è piuttosto deprimente e fra tutte queste figure (tutte profondamente convinte di avere un perfetto controllo della situazione) c’è il serio rischio di incappare in totali o parziali incompetenti.
Grazie al cielo c’è anche la possibilità di incappare in bravi (davvero bravi) educatori, addestratori, rieducatori, veterinari e così via: che sono quasi sempre quelli che oltre agli studi teorici possono vantare una lunga esperienza pratica, unita però ad un profondo rispetto per il cane, alla capacità di mettersi e rimettersi in gioco, di aggiornarsi, di provare tecniche diverse e, in moltissimi casi, anche di inventare e sperimentare nuove soluzioni magari del tutto fuori dagli schemi classici… perché il cane e la sua mente sono ancora “oggetti misteriosi” di cui sappiamo molto, ma molto poco. E perché “il cane” generico è un po’ come “l’uomo” o “il bambino” generici: esistono sulla carta, ma nella realtà ci sono soltanto individui tutti diversi tra loro, che ci si deve sforzare di capire individualmente prima di cominciare a lavorare con loro.
Nel cane ci sono le razze: ovvero, c’è una lunga selezione genetica (operata proprio dall’uomo) che ha differenziato moltissimo le caratteristiche psichiche, e non solo quelle fisiche. Un alano è diverso da un chihuahua non solo perché è dieci volte più grosso di lui, ma anche perché ha una mente diversa, una diversa sensibilità, un modo diverso di rispondere agli stimoli.
Non rendersi conto di questo è già un bel passo verso il fallimento, che si tratti di semplice educazione o di problemi comportamentali gravi: in più c’è, appunto, l’individualità che distingue, a volte in modo anche clamoroso, un alano da un altro alano, un chihuahua da un altro chihuahua.
Aggiungete al tutto il fatto che nessun cane vi racconterà mai i suoi sogni, né potrà mai confessarvi che ha le crisi di panico, e il quadro è completo.
Approcciare la psiche canina è difficile, difficilissimo. È anche terribilmente affascinante, ma è difficile e non è alla portata di tutti. Sicuramente non basta un corso per metterci in grado di farlo efficacemente; ma non bastano neppure lauree e master. La cosa più utile (non totalmente risolutiva, neppure questa: ma utile sì) è proprio l’esperienza. È prendere al guinzaglio, trattare, “discutere” con dieci, cento, mille cani diversi: ma anche quando si hanno quarant’anni di esperienza, come la sottoscritta, si sbaglia. Forse un pochino meno dell’ultimo arrivato, ma si sbaglia eccome.

A chi rivolgersi, dunque? A chi dare fiducia?

Una risposta davvero concreta è impossibile darla, perché – come dicevo sopra – si può incappare nell’espertone pratico che però è rimasto ancorato a metodi di cent’anni fa, o che magari ritiene ancora che i cani si educhino a calci nel culo, così come si può incappare nel neo-diplomato che però ha una sensibilità tutta speciale, un’”animalità” intrinseca che gli permette di leggere negli occhi di un cane e di capire quello che sente.
Lavorare con gli animali non è e non sarà mai una scienza esatta. Ogni nuovo approccio con un nuovo cane sarà sempre un po’ una roulette (non russa, almeno si spera). Puoi puntare e vincere o puoi salutare i tuoi soldi per sempre.  
Però vincere alla roulette è pura fortuna, mentre per vincere in cinofilia aiuta molto studiare, aggiornarsi informarsi. Ma soprattutto aiuta tenere la mente aperta, non fossilizzandosi sul “si deve fare così e basta” che purtroppo è un classico delle scuole più “settarie” e che a mio avviso è la vera rovina della cinofilia moderna.
Visto che non c’è “un cane” e basta, non ci può essere neppure “un metodo e basta”: è lapalissiano. Quindi potremmo dire che il primissimo requisito di qualsiasi figura professionale che si occupi di cinofilia dev’essere l’apertura mentale.
L’esperienza è un valore aggiunto, qualsiasi tipo di studio effettuato è un valore aggiunto… ma se non c’è quella, non ci può proprio essere cinofilia.

 

 Immagini: in copertina A dog’s life, Charlie Chapline (1918) – Diogene  di Sinope – Bassorilievo, Pompei

 

Lo psicofarmaco è una sconfitta. Parola di medico veterinario.

Lo psicofarmaco è una sconfitta sul piano etico e professionale e non di meno su quello zoo-antropologico.

L’incremento dell’utilizzo di psicofarmaci sugli animali da compagnia è un fenomeno preoccupante e pericoloso. In casi di aggressività o isteria o problemi comportamentali in genere, pare la soluzione più in voga in tempi in cui l’umanizzazione dell’animale ha inesorabilmente umanizzato anche la medicina veterinaria. Forse sarebbe più corretto parlare di “ominizzazione”.

Vi è la mancanza di un riferimento che parta dal principio del rispetto della maggiore sanità animale, un assioma inequivocabile: gli animali sono decisamente più sani della specie umana, perché direbbe Rousseau, “meno contaminati dalla civiltà”.

Partendo da questa tesi sarebbe più etico e ragionevole allora ragionare di come riconsiderare le terapie per gli animali. Si dovrebbe fare in modo che le terapie abbiano un maggior grado di rispetto e soprattutto una minore contaminazione possibile.

Là dove la rusticità dell’animale è reale vi è una corrispondeza a una innata capacità di autoguarigione; Nelle razze che storicamente hanno avuto meno contatti con l’uomo o una selezione più rigida e austera l’hanno preservata, gli effetti collaterali avversi da farmaco sono particolarmente evidenti. Questo dimostra il bisogno innato di preservare la propria unità e identità connaturata, rispetto a tutti i principi di sostanze estranee, dette “Xenobiotici “ in senso lato. Ciò che è preservato nella sua origine è sano, o come direbbe Sesto Empirico, “la perfezione sta nel cominciamento”.

Infatti, bisogna considerare innanzitutto che in ogni essere vivente il principio di identità non solo razziale e culturale, è anche principio di individualità e unicità: in campo biologico uno di questi aspetti è verificabile nella patologia autoimmune del  “rigetto”, dove il sistema immunitario non riconescendo e difendendo la propria unicità rifiuta e così facendo conferma quella che viene per ciò definita anche “identità immunitaria”, coincidente sul piano dell’individuo in una propria e vera personalità indivisibile. L’indice di risposta terapeutica è quindi correlabile alla concezione innata di limite ed individuo e fa parte di quella unicità che caratterizza in maniera peculiare ogni essere vivente che giustamente va inteso e conosciuto nella propria singolarità. Da queste analisi è possibile la risposta individuale al farmaco: è già contemplata dalla farmacologia, in senso lato indica come esista la necessità di dover individuarlizzare o personalizzare la terapia in base ad una serie di fattori che rendano meno “protocollabile” la terapia stessa, piuttosto renderla più adeguata alle necessità del paziente.

Lo psicofarmaco è rivolto alla specificità delle terapie mirate ad uno specifico, cioè quelle che si preoccupano di una alterazione dello stato percettivo e cognitivo. La neuropsichiatria classica individua in due categorie farmacologiche gli effetti da ripristinare sull’azione dei neurotrasmettitori e cioè dopamina e serotonina, come le due porte di entrata e uscita del flusso degli elementi psichici che caratterizzano l’emergere della sfera psichica. Forse più di ogni altro ambito in questo, il riduzionismo meccanicistico esprime in questa sua modulazione il limite estremo alla complessità di un sistema tra psiche e cervello, tra mente e emozioni: tutto questo vive in un contrasto, in una contraddizione:  non può essere il frutto di una visione così semplicistica di un apparato d’espressione per la mente di un cane o di un gatto, fatta di una incommensurabile perfezione.

Gettare una sostanza tra i cui effetti vi siano anche quelli descritti è come provocare una scintilla in una polveriera: è giusto menzionare che sopratutto gli psicofarmaci rispondano alla legge di Arndt-Schulz , ovvero di “inversione d’effetto”, cioè che possano euforizzare un depresso ed il contrario, e allo stesso tempo, se  somministrati in un soggetto sano, gli euforizzanti inducono depressione. Oltre al possibile errore terapeutico esisteJack Russell Terrier Snarling anche un errore diagnostico che rende vano e complesso l’uso e l’abuso dello psicofarmaco, per non parlare degli innumerevoli effetti collaterali spesso taciuti. Considerando inoltre che la depressione nella sua accezione umana sia l’effetto di una condizione esistenziale descritta come l’incapacità di vivere le emozioni, o atarassia e quindi il frutto culturale di un male freudiano, non si può equiparare lo psicofarmaco alla stato di rassegnazione indotto dal condizionamento operato dall’uomo sul suo inferiore animale. Ad esempio, il confondere una reazione alla coercizione e prigonìa : la violenza riportata ampliamente dalla stampa quando un leone (“impazzito”) aggredisce il suo domatore. Quindi il Trattamento Sanitario Obbligatorio per gli animali è una prigionia delle emozioni che allo stato istintivo vengono soffocate da una semplice “post-posizione d’effetto”: si rimandala la soluzione del problema attraverso una temporanea sospensione, con l’uso del farmaco: procedura oggi molto usata nei casi di cani aggressivi, o emotivamente sballati. E così è molto frequente che al termine della terapia il problema risulti invariato o addirittura aggravato, poiché la guarigione vera, attraverso l’esperienza, in questo caso anche emozionale, è un processo che modifica in toto anche l’aspetto psichico del soggetto e affinché ciò avvenga, necessita di una evoluzione in senso propositivo del percorso individuale e delle dinamiche che hanno impedito il raggiungimento di un nuovo equilibrio, compreso lo stato psichico. Addestratori e rieducatori sempre più oggi sono impegnati a recuperare cani lungamente trattati con i serotonino mimetici, farmaci il cui nome commerciale è tanto conosciuto da essere entrato nel linguaggio comune per indicare uno stato di alterazione.

Anche l’utilizzo di ormoni è al pari di farmaci psichici: la sfera psichica è altamente influenzata dall’effetto degli ormoni , tanto che l’energia libidica è in chiave fruediana rapportata al pari all’energia dell’individuo e alla sua condizione sessual-repressiva come nell’isterismo. Se la gatta che non si accoppia diventa istericapsicofarmaci le si somministrano ormoni… Quindi anche la castrazione chimica, anche questa suggerita sempre più frequentemente come alternativa alla castrazione chirurgica, mentendo o almeno ignorando gli effetti collaterali, è deleteria e inefficace. Alan Turing, il padre dell’informatica per l’invenzione della macchina di Turing, conosciuto ai più per l’uscita del film “Enigma” (2012), ne fu un esempio lampante: fu arrestato e condannato per omosessualità e costretto a scegliere tra una pena detentiva o la castrazione chimica. Scelse la seconda e per un anno si sottopose alle “terapie” per l’alterazione della libido che furono causa di una depressione che lo portò al suicidio. Rimandare farmacologicamente il problema permette di considerare tra l’altro che gli sforzi prodotti dall’individuo potrebbero coincidere con una guarigione naturale, che vengono confusi con le promesse dello psicofarmaco: non avendo questo una linearità di effetto, dovrebbe almeno far riflettere agli utilizzatori.

Lo psicofarmaco è una sconfitta sul piano etico e professionale e non di meno su quello zoo-antropologico. A chi vanamente parla di co-evoluzione è doveroso ricordare che per una specie come quella umana la tendenza all’uso imponderato del libero arbitrio possa non coincidere con quello più sobrio ma maggiormente attaccato alla vita di quello animale: per questo esistono due velocità diverse che vanno rispettate;  gli animali hanno “meno vita ma più vitalità” e deprimerne l’espressione originale equivale a una epidemia da farmaco su cui ovviamente il mercato farmacologico sguazza.

Se le possibilità terapeutiche partissero da una etica che osservi l’animale nel suo gesto naturale e si fondassero nella capacità interpretativa di intuire con quale modalità interferire o intervenire, potrebbero essere per questo più rispettose e coerentemente avvicinarsi a quel tipo di energie sottili maggiormente coincidenti con il volere della materia: parliamo di “ informazione “ e non di molecole, parliamo di emozioni in sintonia e non discordanti con una armonia comune che indica la vita , nei suoi precedenti minerali vegetali animali, sulla quale occorre seriamente indagare e sulla quale scriverò più avanti.

 

 

Da “padrone” a “care giver”

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VALERIA ROSSI  CI RACCONTA COME NEGLI ANNI È CAMBIATO IL RAPPORTO TRA L’UOMO E IL SUO CANE, NELLA PROSPETTIVA  AFFETTIVA.

 

C’era una volta il cane (e c’è ancora, uguale identico a prima).

C’era una volta l’uomo (e c’è ancora, forse un po’ diverso da prima ma non troppo).

C’era una volta il cinofilo… e probabilmente c’è ancora (a volte c’è da dubitarne), ma di sicuro è lontanissimo da quello di un tempo.
Il tempo di cui stiamo parlando non è la preistoria, non è l’anno zero e neppure l’Ottocento: la rivoluzione cinofila ha poco più di vent’anni e l’esplosione di quella che io chiamo – un po’ scherzosamente e un po’ no – “cinofilia new age” non ne ha più di dieci.
Avendo una carrettata di anni, posso dire di aver visto e vissuto tutti i passaggi: non ho ben chiaro, però, se si sia trattato di un’evoluzione o di un’involuzione. uomo con cane8b28ac082_bn-cani-nokia808pv
Da un certo punto di vista è indubbio che si siano fatti grandi passi avanti: se il cane prima era poco più di un oggetto, al quale al massimo ci si “affezionava”, oggi è considerato un membro della famiglia a tutti gli effetti. E questo va benissimo.
Se un tempo il concetto di “educazione” veniva spesso (anche se non sempre) espresso con frasi come “Appena il cucciolo arriva a casa dagli subito un bel calcio in culo, così capisce chi comanda!”, oggi si parla prevalentemente di relazione e comunicazione.
Se l’addestramento era spesso (non sempre) improntato su quelli che oggi si chiamano rinforzo negativo e punizione positiva (mentre allora si chiamavano “impiccalo finché non obbedisce” e “se sbaglia, dagli un calcione”), oggi si lavora prevalentemente su motivazione, ingaggio, gratificazione e così via.

Al cane è stato riconosciuto (anche dalla legge) lo status di essere senziente e sensibile. Da molti, anche se ancora non da tutti, il cane viene considerato anche un essere cognitivo, capace di ragionare e razionalizzare, di superare gli istinti e di praticare l’autocontrollo.
Tutto bello, tutto buono, tutto giusto?
Sulla carta, indubbiamente sì.
Nella pratica, un po’ meno.
Il membro non umano della famiglia, che andrebbe rispettato soprattutto per la sua alterità, cercando di capire le sue reali esigenze e bisogni, viene equiparato tout court a un bambino di due o tre anni.
La frase che sento ripetere più spesso dalle signore cane-munite :

 Lo amo tantissimo, lo tratto come un figlio!

Ma il cane non è tuo figlio, signora cara (parlo al femminile perché questo atteggiamento è decisamente più diffuso tra le donne, anche se non mancano i maschietti con identici problemi di relazione): il cane è un cane.
Purtroppo per capire cosa sia veramente un cane occorrono anni di studio e di esperienza pratica: non è possibile spiegarlo in due parole e non provo neppure a farlo qui (magari in qualche articolo futuro!).
Sta di fatto che il cane non è un bambino e non può essere trattato come se lo fosse, perché la sua psiche ne esce devastata.
Qualche esempio spicciolo: un cane di quattro anni, bambinizzato dalla sua proprietaria (dormiva nel letto, viveva sempre in braccio, sempre stracoccolato, sempre iperalimentato perché “poverino è magro” – anche se in realtà era un salsiccia con le zampe – e così via), di punto in bianco non ha più permesso al marito della sua umana di accedere al letto matrimoniale.
Fortunatamente si trattava di un cagnolino (obeso, ma piccolo) e non aveva avuto modo di fare grossi danni, ma l’aveva morso più volte: e oltre a fare sceneggiate da tigre del Bengala quando il pover’uomo tentava di andare a dormire, ringhiava minacciosamente ogni volta che lui provava ad abbracciare la moglie o si azzardava a darle un bacetto.
Si potrebbe pensare che la signora capisse di aver sbagliato qualcosina e che quindi fosse stata lei a rivolgersi all’educatrice: invece no.
A venire da me fu il marito, tirandosi dietro una moglie molto contraria a qualsiasi tipo di educazione/addestramento (“lo picchieranno, poverinoooo”!) e convinta che l’atteggiamento aggressivo del suo tesoro peloso (parole sue) fosse dovuto al fatto che era “geloso di lei perché le voleva tanto bene”.
Ovviamente aggiunse la Frase Storica: “Sa, io lo tratto come un figlio!”
La realtà era un po’ diversa.
Un cane di quattro anni non equivale affatto a un bambino di pari età: se i processi mentali effettivamente possono somigliare a quelli di un bambino (ma “somigliare” non significa “essere identici”), il suo sviluppo psicofisico – e per “psico” qui si intendono sentimenti e sensazioni – equivale all’incirca a quello di un uomo di 35 anni.
Detto in modo un po’ brusco (con lei sono stata più politically correct, perché la realtà nuda e cruda a volte è un po’ scioccante): coccolandolo, viziandolo e ammettendolo nel suo letto la signora non lo stava trattando come un figlio, ma come un amante. E il cane, giustamente, la considerava la sua partner: per questo non accettava la “concorrenza” del legittimo consorte.
Perché un cane adulto è sessualmente maturo, a differenza di un bambino: ed è perfettamente conscio delle differenze tra i due sessi umani, tant’è che questo genere di cose non succede praticamente mai tra cane femmina e proprietaria femmina (se fosse solo una questione di affetto, dovrebbe succedere!), ma sempre tra cane maschio e proprietaria femmina, o (più raramente, perché gli uomini sono meno bambinizzatori) tra cane femmina e proprietario maschio.
Esempio numero due: un altro cane adulto è finito sotto una macchina (fortunatamente sopravvivendo) perché la sua proprietaria l’ha liberato in un prato ai margini di una strada trafficata. Dal prato è scattata via una minilepre e il cane è partito all’inseguimento, ignorando ogni richiamo e finendo in mezzo alle auto. “Ero così sicura che mi sarebbe stato vicino! – mi spiegò, in lacrime, la signora – Non si stacca mai da me, mi vuole tanto bene, sono la sua mammaaaa!”
Certo, non si stacca finché non c’è niente di abbastanza interessante: ma se arriva qualcosa capace di stimolare il suo impulso predatorio (normalissimo in un cane, a differenza che in un bambino) un cane adulto segue la sua natura… a meno che non sia educato e addestrato a dovere. Non era questo il caso, purtroppo, perché le “mamme” spesso considerano l’addestramento una brutta cosaccia cattiva: aiutate, purtroppo, in questo da certi servizi televisivi che mostrano sempre e solo il lato deteriore del lavoro con il cane.
Eh, sì: perché questo è un altro lato sgradevole dell’evoluzione (o involuzione) cinofila: i media se ne occupano sempre più spesso (e questo sarebbe un bene), ma se ne occupano basandosi sulla vecchia teoria giornalistica delle “tre S” (cosa fa vendere un giornale? Sangue, sesso e soldi).
I servizi televisivi si occupano principalmente di ciò che scandalizza, che fa inorridire o rabbrividire: canili lager, abbandoni, torture, uccisioni. Peccato che spesso tendano anche a far generalizzare: a far sì che lo spettatore faccia di tutta l’erba un fascio.
Recentemente abbiamo visto il servizio di Striscia la Notizia sull’allevatore criminale che uccideva i cani in esubero e li seppelliva in giardino: il messaggio che è passato è stato che “gli allevatori sono tutti criminali”. Quando gli stessi inviati di Striscia sono stati, tempo addietro, su alcuni campi di addestramento, sono andati a beccare i macellai che usavano il collare elettrico. Messaggio arrivato al pubblico? “Gli addestratori sono tutti macellai”.
Mai che qualcuno si sia sognato di far vedere anche l’altro lato della medaglia: allevatori che davvero tengono i propri cuccioli “come figli” (e qui ci sta, visto che sono appunto cuccioli!), addestratori che lavorano in armonia con il cane, divertendosi con lui e rispettandone le sue esigenze.
Non si è mai sentita neppure una semplice frase che dicesse “Guardate che questo è un caso anomalo, un singolo delinquente in mezzo a una massa di persone normali che con i loro cani hanno rapporti normali e bellissimi”.
La TV rema fortemente contro la cinofilia professionale, spinta in questo da un altro mondo variegato e pieno di contraddizioni che è quello dell’animalismo/protezionismo (che ha un forte peso politico, a differenza del mondo cinofilo).
Questa brutta immagine della cinofilia – diciamo così – “tecnica”, unita all’indubbio miglioramento dell’immagine del cane, ha dato purtroppo il via libera a tutta una serie di furbacchioni capaci di sfruttare la spinta emotiva umana per lanciare sul mercato una serie di proposte cinofile improponibili, che vanno dalla pura e semplice terminologia (non si parla più di “padrone”, termine che in effetti infastidisce parecchio anche me, ma di “care giver”, ovvero di qualcuno che “si prende cura”) alle metologie educative più allucinanti.
Si parte dal permissivismo globale (una sorta di manuale del dottor Spock in formato canino: peccato che il dottor Spock abbia poi confessato che il suo metodo eccessivamente permissivo aveva “creato una generazione di delinquenti”) e si arriva ai corsi – udite udite – di telepatia con il cane: anzi, con la foto del cane.
Per chi già si sente “mamma” del proprio cane, ovviamente, tutto questo rappresenta un richiamo irresistibile: cosa c’è di più attizzante del buonismo?
Il cane non deve venire da te perché l’hai chiamato (avresti dovuto addestrarlo, che parolaccia!), ma perché desidera stare con te. E se non lo desidera, anche solo per qualche minuto, e finisce sotto una macchina? Ops. Secondo alcuni cinofili new age, “poverino, è stato sfigato!” Ad altri non può succedere, ma solo perché i cani vivono perennemente al guinzaglio, almeno le rare volte che escono di casa: sempre che non vivano addirittura in borsetta, allucinante moda lanciata da Paris Hilton con i suoi chihuahua Paris+Hiltonle che a mio avviso potrebbe tranquillamente rientrare nel concetto di “maltrattamento” (non parlo, ovviamente, di un giretto di mezz’ora col cane in borsetta: parlo di cani che non hanno mai messo le zampe a terra in vita loro. Purtroppo ne ho conosciuto più di uno).
La cinofilia, dunque, è riuscita a subire contemporaneamente un’evoluzione e un’involuzione, entrambe epocali. Il cane ha raggiunto, nella maggior parte dei casi (purtroppo le eccezioni ci sono ancora e temo che ci saranno sempre) lo status che meritava, e cioè quello di membro della famiglia, ma troppo spesso si è dimenticato un concetto basilare, e cioè il fatto che si tratta di un membro non umano. Che non può essere trattato come un bambino e tantomeno come un bambino con deficit intellettivi, come purtroppo spesso accade.
Per bilanciare le cose servirebbe semplicemente una maggiore cultura cinofila: bisognerebbe che le persone conoscessero almeno l’ABC dell’etologia, che sapessero distinguere tra cane e uomo non soltanto per il fatto che il primo ha la coda e cammina a quattro zampe, che capissero quanto, a volte, si danneggia un cane nella convinzione assoluta di renderlo felice.
È un percorso impegnativo, ma andrebbe fatto da tutti, iniziando dalle scuole: i bambini di oggi potrebbero essere i cinofili di buon senso di domani.
Succederà? Forse sì: qualche segnale positivo già si vede (sempre per iniziativa privata, sia chiaro: mai che le istituzioni facciano qualche passo utile… salvo scapicollarsi poi a emanare ordinanze totalmente assurde quando un cane morde qualcuno), ma la strada è ancora molto lunga.
Nel frattempo l’unico invito che si può fare a chi ama i cani e/o possiede un cane è quello di non lasciarsi fuorviare dalle mode: di usare un minimo di senso critico, anzi di buon senso tout court. A volte basterebbe quello per trovare la giusta via di mezzo tra le brutture passate e le brutture attuali, anche quelle travestite da gentilismo e buonismo.

Fotografie: In copertina: il famoso scatto di Doisneau che immortala Jacques Prévert con il suo cane (Fonte web). Uomo con cane, Paris Hilton (Fonte web).

 

La birra artigianale. Una bevanda “naturalmente viva”

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Sapete dove è nata la prima birra monastica (artigianale) in Italia?

Alle porte di Milano, in un angolo discreto di Pianura Padana,  si nasconde fra le nebbie e i campi dipinti dall’action painter William Congdon (che lì visse per molti anni), un monastero di quelli “Ora et Labora”, dove vive la comunità S.S. Pietro e Paolo: monaci benedettini di clausura. Uno di loro mi racconta:

Nel 2005 due di noi hanno trascorso un periodo di formazione in Belgio, presso alcune abazie che sono leader mondiali in questo particolare settore. Là hanno imparato le migliori tecniche di produzione da confratelli molto esperti – spiegano. Il nostro lavoro si inserisce nel solco di un’antica tradizione che fin dal Medioevo ha visto i monaci diventare importanti produttori di questa bevanda, soprattutto nel nord Europa. le tre ali della nebbia, W. Congdon

I 20 religiosi che compongono la comunità a Buccinasco hanno deciso di dedicarsi a questa attività dal 2008 quando si sono resi conto che l’agricoltura non era più sufficiente al loro sostentamento, nasce così il primo microbirrificio monastico italiano.  Oggi la concorrenza è alta e molte sono le produzioni nate successivamente, quindi pare decisamente importante il premio vinto nel 2014 Brussels Beer Challenge dove la Blond ha ottenuto la medaglia d’argento nella categoria Birre di Abazia, con più di 300 partecipanti. Ma facciamo un passo indietro.

La birra è una bevanda antica come l’uomo.

Sono state rinvenute testimonianze scritte già nella civiltà Sumera attorno al 3000 avanti Cristo. Quando parliamo di birra in riferimento alle popolazioni dell’antichità non dobbiamo però pensare alla bevanda così come oggi la conosciamo. Essa era piuttosto qualcosa di simile ad un decotto denso costituito da cereali impastati con acqua e poi lasciati fermentare all’aria in modo più o meno naturale.

Plinio il Vecchio (+ 79 d.C.) nel suo famoso trattato Naturalis Historia ne scrive dicendo che in Egitto veniva chiamata Zythum, in Spagna Celia o Cerea, in Gallia Cervesia. La sua schiuma veniva usata dalle donne per curare il viso (cfr. XXII, 164), mentre i Galli la usavano come lievito per fermentare il pane che, per questa ragione risultava più leggero (cfr. XVIII, 68). Esistono poi testi medievali che ne parlano all’interno di trattati medico-dietetici, tra i quali ricordiamo le opere della Scuola Medico Salernitana o di santa Hildegarda di Bingen. Per le sue proprietà nutritive la birra era chiamata anche : “pane liquido”.

Secondo alcuni studiosi sembra che la birra amaricata e aromatizzata col luppolo (Humulus Lupulus, è un rampicante perenne della famiglia delle Cannabinaceae, di cui si usano le inflorescenze femminili) come la conosciamo oggi, sia un’ innovazione di origine monastica. Il suo utilizzo per la produzione della birra compare per la prima volta in alcuni manoscritti benedettini del IX secolo.

La birra è davvero un prodotto assolutamente naturale. Una bevanda ottenuta dalla fermentazione alcolica con lieviti (funghi unicellulari) di un mosto preparato principalmente con malto d’orzo. Poche e semplici le materie: acqua (circa il 90 %), malto d’orzo (o in aggiunta altri cereali tipo frumento, mais, riso), luppolo e lievito. Oggi però, grazie anche al lavoro creativo dei micro-birrifici artigianali, si sta affermando il fenomeno delle birre aromatizzate con spezie o frutta, recuperando e ripensando in chiave italiana quella che è la grande tradizione birraria Belga. monaci birra2Le birre “artigianali” normalmente utilizzano un processo di “rifermentazione in bottiglia” (o fusto), cioè aggiungono zucchero e lievito in fase di condizionamento in modo tale da innescare una fermentazione ulteriore (dopo quella primaria che trasforma, grazie al lavoro dei lieviti, il mosto zuccherino in alcol e CO2) che conferisce originalità e “vitalità” al prodotto conferendogli un gusto che si affina ed evolve nel tempo anche per parecchi mesi. La grandezza di una birra, non di rado, è dovuta proprio al tipo di ceppo di lievito che si usa, perché il suo metabolismo sprigiona prodotti cosiddetti “secondari” della fermentazione che rilasciano esteri (cioè note floreali) o alcoli superiori (cioè note fruttate: banana, pesca, frutti tropicali), i quali sono importantissimi nel delineare il profilo aromatico della birra.

Oggi si usano prevalentemente due grandi famiglie di lieviti. Il ceppo Saccharomyces Cerevisiae, che è la forma più diffusa e che predilige alte temperature per la fermentazione, ovvero di almeno a 16-18 °C. Tutte le birre, fino a circa 200 anni fa, si producevano con questo lievito. Il ceppo Saccharomyces Carlsbergensis che predilige temperature di fermentazione comprese tra 5 e 10 °C. Questo significa però che sono necessari impianti di raffreddamento durante tutto l’anno con evidenti aumenti di spesa sulla produzione. Bisogna dire però che le basse temperature proteggono meglio la birra dallo sviluppo di microorganismi indesiderati. Terminata la fermentazione primaria il levito può essere recuperato dai serbatoi di fermentazione e riutilizzato per “innescare” una nuova produzione di birra. monaci birra1

Per questo la birra è una bevanda naturalmente viva e se vi capitasse di incontrare questi monaci, che non hanno mail, non hanno un profilo facebook e lavorano e pregano tutto il giorno, vi accorgerete che anche le loro facce, pur incarnando più di 1500 anni di regola monastica, sono vivissime.

Verrebbe da chiedergli quale lievito usino per loro stessi.

 

 


 

Per conoscere tutte le caratteristiche della Birra Cascinazza che oggi produce la Blond, la Amber e la Bruin  e per studiarne gli abbinamenti a tavola potete andare nel sito del Birrificio dove troverete tutte le specifiche, le ricette e come e dove acqustarla. Prosit!

 

Immagini: William Congdon, Le tre ali della nebbia.  Monaci al lavoro nel laboratorio della Birra Cascinazza

Il gatto di Montaigne (parte I)

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Gli occhi dei gatti racchiudono qualcosa di enigmatico e al tempo stesso di emblematico, per noi. Chissà se i nostri avranno, per loro, le stesse misteriose, o forse solo ambigue, qualità. Sia come sia, così – emblematica, enigmatica – dovette apparire a Michel de Montaigne la gatta di cui, nell’Apologia di Raymond Sebond, scriveva: «quando gioco con lei, come faccio a sapere che non sia lei che gioca con me?».

La domanda, racchiusa in quello che Jacques Derrida definiva uno dei più lucidi e importanti «testi precartesiani e anticartesiani sull’animale», in qualche modo compendia la convinzione che, al fondo della vita dell’altro, gatto o uomo in questo caso poco importa, permanga sempre qualcosa di insondabile, un multiplo legame con una zona liminare dell’altro da sé, non scalfita né dalla luce della completa differenza, né dall’ombra della seppur parziale identità da cui è comunque lambita. I passatempo della servitù, la pazienza muta delle cose, gli occhi del gatto sono, in Montaigne – forse il più «dialogico» di tutti gli scrittori – incontri occasionali che aprono all’incontro e al confronto, qualcosa verso cui possiamo approssimarci, come possiamo approssimarci a noi stessi e alle nostre dissonanze senza mai assimilarle o accordarle troppo a un ego pronto ad andare in mille pezzi alla prima occasione.

Oltre a Saul Frampton, che incardina il suo Il gatto di Montaigne (Guanda, Milano 2012) partendo proprio dal più compiuto degli Essais, anche Richard Sennett nel suo Insieme (Feltrinelli, Milano 2012) menziona l’episodio della gatta (o del gatto) situandolo «nel cuore stesso» del proprio progetto. Se Bruno Latour, a più riprese richiamato da Sennett, aveva le sue buone ragioni nel sostenere che, nel nostro rapporto con scienza, alterità, tecniche non siamo mai stati moderni, richiamandosi a Montaigne, «primo dei moderni», Sennett precisa: non lo siamo ancora diventati, moderni.

Nella conclusione del suo Together, volume che segue The Craftsman nella trilogia dedicata al “Progetto Homo Faber”, il sociologo statunitense, già autore di libri chiave sulle derive del lavoro nel cosiddetto nuovo capitalismo, porta proprio la gatta descritta da Michel Eyquem duca di Montaigne a esempio di quella cooperazione impegnativa che per lui costituisce traccia e filo, tra un passato e un futuro prossimi, sulla quale si strutturano le quasi trecento pagine del suo ultimo libro. Libro il cui sottotitolo recita “The rituals, pleasures and politics of cooperation” e la cui traduzione italiana, di Adriana Bottini, sceglie la variante “collaborazione”, laddove un tedesco avrebbe avuto gioco migliore, nel rendere l’inglese cooperation con quel lavoro comune che si condensa del termine Zusammenarbeit.

Tutto è solo un’attesa

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Ci sono talvolta in aprile delle mattine limpide, d’una grazia leggera, molto fragile. Pare che l’universo sia appena nato, appena uscito dall’acqua originale, illimitata, che da ancora umido, che conservi qualcosa dalla trasparenza dei laghi. Il mondo sembra tutto puro e nuovo, la sua luce intatta. Tutto è solo luce e acqua. E’ il primo giorno (…) il mondo la sua comparsa (…) l’universo diventa completamente trasparente, come il velo di una sposa.  Un’aria si muove con onde leggere. Forse l’avvenimento accadrà. Il solo avvenimento per cui il mondo sia stato creato. Tutto è solo un’attesa, una domenica e questa luce insieme gloriosa e tenera sembra un vestito di festa. La grande speranza. Ma l’attesa si prolunga e l’intero universo è una selva di braccia tese…

Eugène Ionesco